La sua cella puzza molto meno di quanto si fosse immaginata: si era aspettata un tanfo deprimente di
liquidi corporei e disperazione, ma tutto quello che sente è il profumo acidulo del detersivo, appena
macchiato di rassegnazione in qualche angolo. Per quelle tre, quattro ore che deve passare qui, può
andare, può proprio andare.
«Certo che hai fatto una bella sciocchezza, eh?»
Il suo aguzzino è un bel ragazzone coi boccoli castano chiaro e i lobi trapassati da quelli che sembrano
due chiodi d’argento. In un altro momento, magari ci avrebbe anche fatto un pensierino.
«Già. Notevole, vero? Così va la vita» risponde Aral dondolandosi sull’unica sedia nella stanza.
«Immagino. Umana rompiballe? Un sacco di gente finisce qui perché gli hanno appioppato degli
isterici.»
«Nah. Lara era okay. A tal proposito, non sono più Aral, vero?»
«Ah, no. Adesso sei – il giovanotto consulta un taccuino – SD118112. Era il tuo codice aziendale.
Abbastanza carino, direi. Se non era l’umana, allora perché?»
«Lunga storia» risponde Aral.
«Hai tre ore e quarantacinque minuti, o giù di lì. Accomodati, madame» dice il ragazzone
appoggiandosi alla parete.
Certe mattine di giorni dispari, Aral si sveglia con la vecchia frattura al malleolo pulsante e la
consapevolezza che la scelta più sensata, per il bene del suo equilibrio psicofisico, sarebbe restarsene a
letto per le successive ventiquattr’ore. Questa ha ottime possibilità di essere eletta la sovrana di quelle
giornate.
Mentre imita i movimenti di Lara davanti alla webcam, con la coda dell’occhio intravede ancora il
post-it arancione che qualcuno ha pensato bene di appiccicare sull’angolo del suo monitor. Sopra, in
penna blu, lo stesso sprovveduto ha scarabocchiato Buon decimo anniversario!.
Aral si sposta davanti all’obiettivo collegato allo specchio a tutta altezza nell’anta sinistra dell’armadio
di Lara e prova a smettere di pensarci – con scarso successo. Dieci anni a lavorare per Empatia (motto:
“Mettiti nei loro panni!”) sono più che sufficienti per dimenticarti di essere mai stato qualcuno oltre al
riflesso dell’umano che ti assegnano.
Aral ricorda il suo colloquio di lavoro: “È un incarico importante,” le avevano detto, “Gli umani sono
creature egocentriche: senza specchio non durerebbero un giorno.”
Ricorda anche il tirocinio di diciotto mesi e il software di allenamento, iMirror, con il suo blip blip
isterico tutte le volte che le sue copie dei movimenti dell’umano virtuale sullo schermo non arrivavano
a rasentare la perfezione.
Dall’altra parte dello specchio, Lara si prova il vestito verde con gli strass acquistato la settimana
scorsa. Ne sguscia fuori poco dopo, indispettita dalla scollatura che lascia scoperte le spalline del
reggiseno, e lo fa cadere ai suoi piedi in un mucchietto luccicante come le elitre di un coleottero.
Quello nero con le maniche a sbuffo che le hanno regalato i nonni per Natale fa la stessa fine –
«Troppo scialbo per stasera» sentenzia Lara, anche se Aral lo trova piuttosto carino.
Alla fine, Lara tira fuori dal fondo dell’armadio il pacco di carta crespata di cui la mamma non deve
sapere niente, e si inguaina con cura in un vestitino rosso con la scollatura posteriore che finisce
appena sopra la curva lombare, e l’orlo subito sotto. Nasconde il tessuto mancante sotto una giacchetta
in pelle sintetica.
«Un po’ corto, forse» mormora davanti allo specchio.
Decisamente corto, pensa Aral dall’altra parte, senza lasciare che l’opinione le affiori sul viso.
«Ma a Gianluca potrebbe piacere.»
A Gianluca piacerà un sacco, senza dubbio. Aral ricorda con sgomento il diciottenne butterato che ha
visto aggirarsi per lo spogliatoio femminile della palestra del liceo, mentre aspettava nello specchio
macchiato che il suono della campanella richiamasse Lara e compagne dalla lezione di ginnastica.
Tuttora, le sfugge quale parte di lui possa essere reputata lontanamente affascinante.
Ma Aral non ha voce in proposito: la legge è che gli umani continuino a considerare la loro immagine
più o meno distorta nelle superfici riflettenti un impersonale fenomeno di rifrazione. La legge è anche
stata trasgredita un buon numero di volte (e i ribelli eliminati con una pletora di metodi vari e
fantasiosi), come testimonia una nutrita schiera di film horror terrestri.
Lara si rimira un’ultima volta, annuisce, si sistema l’acconciatura e poi si allontana barcollando sui
vertiginosi tacchi dei sandali dorati. Aral pensa che somigli molto a una bambina sui trampoli, e la
bocca dello stomaco le si contrae dolorosamente.
Mette il sistema in stand-by (un allarme l’avvertirà se Lara si dovesse avvicinare a uno specchio con
un’area maggiore di dieci centimetri quadrati, misura al di sotto della quale non è necessario un
operatore, perché la CPU è programmata per generare riflessi automatizzati), e fa per andare a
prendersi un caffè al distributore. Prima, però, strappa il post-it arancione e lo lascia fluttuare nel
cestino della carta straccia.
Digita i comandi per un espresso senza zucchero, anche se crede che qualcosa ad alta gradazione
alcolica le farebbe decisamente meglio: ma non è consentito sballarsi in orario d’ufficio quando si è
assegnati a un umano minorenne. Lara soffre saltuariamente d’insonnia, quindi il suo orario d’ufficio
si estende spesso oltre il limite previsto. Le pagano gli straordinari, per questo.
La caffeina non la rinfranca un granché. Con il pensiero, va alla tasca interna della sua borsa di plastica
verde, appesa all’attaccapanni nell’angolo nord del suo ufficio: sa che dentro c’è la scatoletta intatta
delle sigarette al mentolo, ancora avvolta nel suo involucro trasparente. Per un attimo, si trastulla con
l’idea di fumare un pochettino, dopo tanto tempo, solo una goccia di nicotina, poi ricorda Lara tossire
fumo dopo la sua prima cicca, due anni fa, e decide che è meglio di no.
Improvviso tossicchiare educato alle sue spalle. «Uhm, scusa… Hai finito, lì? Marco è a farsi una
doccia, ma non durerà ancora a lungo.»
Aral si volta e inquadra il giovane dell’ufficio davanti al suo. Le sorride cortesemente, e lei fa del suo
meglio per ricambiare, scivolando di lato.
«Ocram, giusto?» domanda, mentre lui si china davanti al portello della macchinetta in attesa del suo
latte al cioccolato con quattro dosi di zucchero.
«Elia» corregge il giovane senza fare una piega. «La storia di Marco-Ocram è una scemenza che si sono
inventati i pezzi grossi. Pensano che chiamandoci con il contrario del nome del nostro umano, saremo
più docili e ubbidiremo ciecamente alle loro direttive» spiega serafico. «Tu invece?»
«Io… cosa?» balbetta Aral, un po’ spiazzata.
«Come ti chiami?» suggerisce lui.
Lei si prende quindici secondi per pensarci. «Aral. Sono stata Aral per tanto tempo. Va bene così.»
«Oh,» fa Elia, con aria moderatamente scontenta.
«Ah, non fraintendere. Empatia non è un granché, siamo d’accordo. Quello slogan del cavolo e tutto il
resto. Ma non è che prima di venire qui fosse tanto meglio. Almeno ora so cosa fare di me stessa.»
Scrolla le spalle.
«Beh, sai, è proprio questo il problema. Raccolgono poveracci che stanno nella propria pelle come
pesci fuor d’acqua, e offrono loro una via di fuga. È abbastanza sleale, se ci pensi.» Elia raccoglie con la
paletta lo zucchero sul fondo del bicchiere. «Io voglio essere me stesso. Adesso scusa, pare che Marco
abbia quasi finito. Ci vediamo.» Le strizza un occhio con aria sorniona e si avvia lungo il corridoio, con
le suole di gomma delle scarpe che squittiscono sulle mattonelle.
Aral lo segue con lo sguardo finché non sparisce dietro la porta del suo ufficio. È stata Aral per così
tanto tempo – un decennio oggi, hurrah. Chi era, prima?
La musica rintrona nel cranio di Lara. Le luci psichedeliche e i vapori dell’alcool le danno la nausea, e i
suoi canali semicircolari sono in sciopero da un po’. Gianluca non si vede più; prima, l’ha chiamata
“bella gnocca” e le ha fatto scivolare in bocca dieci centimetri di lingua – Lara ha sentito sapore di
vodka alla frutta. Sta iniziando a rimpiangere di essere venuta.
Magari se ne andrà alla toilette e poi chiamerà suo padre per farsi venire a prendere. Buona idea.
Potrebbe restare a dormire da lui, e la mamma non verrebbe mai a sapere del vestito, e di Gianluca, e
di tutto questo pasticcio. Ottima idea.
Si avvia verso i bagni con lo stomaco in subbuglio e i talloni che pulsano nei sandali. Appena sgusciata
dentro, nota Barbara (“Barbie”) e il suo gruppo di adepte chinate sui lavandini a rifarsi il trucco. Sono
brille, sconvolte e bellissime, ancora meno coperte di lei ma più disinvolte.
Le iridi grigie di Barbie, riflesse nello specchio, si piantano su di lei, e Lara vede evaporare la speranza
di rigettare in pace.
«Ehi, Larita» fa Barbara – cinque paia di occhi cerchiati di eye-liner seguono la traiettoria del suo
sguardo. «Che fai?»
«Non mi sento tanto bene» risponde Lara tentando, nonostante tutto, di raggiungere una cabina
libera.
«Non vorrai vomitare, tesoro. C’è una soluzione che può rimetterti in sesto e risparmiarti il rossetto
allo stesso tempo. Così puoi tornartene a limonare con Gianluchino là fuori.» Cacofonia di eleganti
sghignazzi.
«Sarebbe?» domanda Lara, con il cuore che batte forte nelle orecchie.
«Questa cosina qui.» Barbara fruga nella pochette e ne trae una bustina piena di pillole verdognole. Se
ne fa cadere una sul palmo e gliela allunga. «La prima te la regalo. Come quella cicca, ricordi?»
Lara ricorda. Ricorda il fumo che le bruciava nella gola, e l’idea di essere così grande, e la
consapevolezza ovattata di aver appena ricevuto una spinta giù per la scala a chiocciola diretta verso
l’abisso. E adesso, in caduta libera, sente che gli ultimi gradini si stanno avvicinando.
«Non saprei. Penso che sia meglio che me ne vada a casa.»
«Non essere una rottura, Larita. Una non ti fa nulla. Andiamo.» Andiamo, ripete il coro, mentre Barbie
le posa la pillola tra le dita.
Lara si guarda nello specchio sporco. Si vede le guance rosse, i capelli in disordine e gli occhi troppo
grandi. Per un attimo, ha l’impressione di stare fissando un’altra persona da molto, molto lontano.
Dammi un segno, pensa, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Dimmi di no, e non lo faccio, me ne
torno a casa e giuro che non lo faccio.
E allora, lentamente, con decisione, la Lara riflessa nello specchio scuote la testa. Le sembra di sentire
un blip blip fioco, da qualche parte.
Il ragazzone fischia. «Sei una tosta, tu, eh?» domanda, passandosi una mano tra i boccoli.
«Mah. Nella media, direi» risponde Aral stringendosi nelle spalle. «Quell’Elia che lavorava davanti a
me era più tosto, penso. Farà strada, se non lo beccano a diffondere idee rivoluzionarie.»
«E tu, invece?»
«Io ho fatto il mio.»
«Salvare la tua umana?»
«Anche.»
Lui le rivolge un’occhiata confusa, poi il suo ricevitore squilla. Lo porta all’orecchio e aggrotta le
sopracciglia. «Sì. Okay. SD118112, ce l’ho qui. Glielo dico.» Riattacca e la guarda con gli angoli della
bocca piegati all’ingiù. «Mi sa che è giunta la tua ora. Mi dispiace davvero.»
«Lo apprezzo» dice Aral smettendo di dondolarsi sulla sedia.
«Posso chiederti solo una cosa?»
«Spara» dice, ma sa cosa aspettarsi.
«Cosa intendevi, prima?»
Lei gli sorride. Che tempismo sfortunato, pensa, sarebbero stati carini insieme. «L’ho ricordato. Chi
ero prima di diventare Aral: l’ho ricordato.»

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