A 20 km da Monaco di Baviera (forse una mezz’ora di viaggio, a livelli standard di traffico) sorge Dachau. 482 metri di altitudine, 45 mila abitanti circa, circondata da quel caratteristico territorio muscoso a cui si dà il nome, per l’appunto, di Dachauer Moos, muschio di Dachau. 41.500 morti, ammazzati o di stenti, tra il 1933 e il 1945.

Il campo di concentramento, primo nel suo genere, nasce nei locali della vecchia fabbrica di munizioni in disuso il 22 marzo del ’33, un paio di mesi scarsi dopo la salita al potere di Hitler alla fine di gennaio. È il pupillo maniaco dell’allora presidente della Polizia di Monaco Heinrich Himmler, che al riguardo rilascia una dichiarazione del genere: “Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio”. Il popolo, per la verità, pare avere qualcosa da ridire: interpellati dagli Alleati dopo la liberazione, molti si diranno inconsapevoli di quanto era avvenuto nel campo.

A costruzione completata, la capacità massima di Dachau si attesta intorno ai 5000 prigionieri, 6000 a voler strafare: arriverà a contenerne più di 40.000 tutti in una volta. I numeri parlano di un totale di 200.000 tra dissidenti politici, stranieri, omosessuali e, immancabilmente, ebrei.

Anche se durante il suo periodo di attività (il più lungo tra i suoi simili, tutti i 12 anni del regime nazista) non si vedrà mai appiccicare in maniera ufficiale l’etichetta di campo di sterminio, lo “spirito di Dachau, il terrore senza pietà” verrà preso a modello in tutti i campi di più recente costruzione. Fa la sua prima comparsa anche quel cancello che diventerà uno dei simboli più conosciuti del nazismo, con tutto il sadismo beffardo di Arbeit macht frei.

A Dachau per morire non servono le docce. Ci pensa il brulichio di malattie nelle baracche piene da scoppiare. Ci pensa il Bunker, la prigione in cima al campo, coi suoi cubicoli di 70×70 cm in cui si sta chiusi tre giorni, in piedi, per aver raccolto un giornale da terra. Qualche SS annoiata che trova un prigioniero e, per ammazzare il tempo, gli dà una spintarella sulla striscia proibita di prato, sotto il tiro degli agenti nelle torrette di sorveglianza.

A Dachau ne stroncano tanti. 41.500 in dodici anni. Chi cade di stenti, chi fa da cavia agli esperimenti di macellai col vizio di chiamarsi scienziati, chi si ritrova un proiettile nel cranio per il capriccio di chi sta più in alto. Non stroncano l’altro spirito di Dachau, quello no. I prigionieri che si riuniscono la sera nella Piazza dell’appello davanti alle baracche e tessono quei fili di solidarietà a cui qualcuno riuscirà a tenersi aggrappato fino al ’45.

Più di settant’anni dopo essere stato sgomberato, il campo rimane uno di quegli angoli di mondo per cui si prova una repulsione che ha del fisiologico. Se esiste un subconscio collettivo della razza umana, un postumo strascicato di istinto, quello che dice è che luoghi come Dachau non sono fatti per la vita. Il male li impregna come una macchia di fumo sul muro che resta nera in barba a tutte le mani di vernice con cui si è tentato d’imbiancarla.

 

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