Da tacchini chiamati gesuiti alla arance di Pompei usate a solo scopo decorativo fino ai valori ancestrali del cibo e al mito della Cuccagna: molte sono le cose curiose della storia della cucina che oggi molte persone non conoscono. Se poi parliamo del medioevo, la cosa si fa senza dubbio più “golosa”.  Il giorno 25 ottobre al caffè letterario del teatro Niccolini di Firenze alle ore 18:00 si è svolta la presentazione del libro “Mangiare nel medioevo”(Sarnus edizioni, p.152, € 15,00) di Maria Concetta Salemi, vera esperta e intenditrice in materia, presentata con simpatia e professionalità dall’editore Antonio Pagliai direttore di Polistampa.       

Nel libro l’autrice ci racconta di come fosse caratterizzata la cucina dell’età di mezzo, e in effetti di caratteristiche ne aveva molte ed erano anche parecchio rigorose. Si pensava che il corpo umano, così come tutti i cibi, fosse composto da quattro “elementi”: caldo, umido, secco e freddo. Si pensava inoltre, vista l’incredibile affinità avuta dalla cultura gastronomica con quella della medicina, che il cibo andasse scelto in base alla situazione in cui si trovava il corpo  (il che comunque come credenza ha un fondo di verità). Nel caso il corpo fosse caldo e umido, allora serviva un piatto freddo e secco per bilanciare gli elementi e viceversa, se invece il corpo era in una situazione “mite”, allora il cibo doveva essere bilanciato di suo. Così ad alimenti freddi venivano mischiati alimenti caldi e a quelli umidi ne venivano mischiati altri secchi in modo che il tutto si equilibrasse secondo il principio del: “Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo” espresso da Ippocrate, considerato il padre della medicina antica. Bilanciare il tutto non era così semplice in quanto esistevano fino a quattro gradi differenti d’intensità per ognuno dei quattro elementi. Nel medioevo venivano dati ai cibi nomi che spesso appartenevano a quella che era creduta la loro origine. Nel ‘500 poi le arance dolci verranno chiamate “I portogalli” poiché importate in Italia dall’omonimo paese; questi frutti tra l’altro, esistendo prima solo nella loro variante amara, venivano usati esclusivamente in combinazione col limone. Sì è scoperto infatti che a Pompei gli aranci erano un elemento estetico e le arance di conseguenza non erano considerate nella cucina locale. Per prendere poi un esempio postmedievale, all’odierno tacchino era dato il nome di gesuita dato che saranno appunto i gesuiti, dopo la scoperta dell’America, ad introdurlo nella cultura gastronomica in Spagna, da cui passerà in Francia e in Italia.

Particolare è poi l’idea delle spezie medievali che si ha comunemente al giorno d’oggi. Queste a differenza di quanto si crede non erano utilizzate in quantità industriali all’interno di ogni piatto, tutt’altro: anzi, visto il loro costo erano molto limitate in tutte le ricette, salvo in alcune di “alta classe” in cui ne veniva specificato un uso maggiore rispetto alla norma. L’autrice ci spiega inoltre che nel medioevo non vi era sempre una grande disponibilità di cibo. Quest’epoca era infatti costellata di numerose carestie ed epidemie che limitavano la disponibilità dei prodotti. Così il mito della cuccagna rappresentava un desiderio ed un’utopia molto amata all’epoca. Pensare all’esistenza di questo paese in cui tutto è a rovescio e dove benessere, abbondanza e piacere sono alla portata di tutti era un qualcosa che dava speranza in una società difficile (anche se non poi più di altre) come quella medievale. Il latte era preferito vegetale, di mandorle essenzialmente, poiché quello animale tendeva a sciuparsi in fretta visti i lunghi viaggi fatti (magari anche sotto il sole) prima di giungere nei banconi in cui veniva venduto. Era infatti proprio nei banconi dei mercati che era venduto il cibo alla popolazione: al contrario di quanto si possa pensare, era sottoposto a rigidi controlli, specialmente per la carne, prima di essere esposto e messo in vendita. Nel libro che com’è stato detto nella conferenza: “si legge come un romanzo anche senza cucinare, e soprattutto non fa ingrassare”, sono presenti molte ricette medievali che contengono ingredienti e sapori ormai persi dalla cucina moderna. “Anche grazie alla globalizzazione” – ci fa notare l’autrice – “ognuno o quasi degli ingredienti usati nell’età di mezzo, per quanto particolare possa sembrare, è comunque reperibile senza troppi problemi”. Sono poi presenti nel libro alcuni riquadri più scuri che nella sezione delle ricette assumono un significato particolare: essi (a scopo più che altro di intrattenimento) descrivono infatti ricette che variano dall’essere difficili da preparare all’ essere estremamente cariche di calorie o “diversamente buone” secondo il gusto moderno. Gli ingredienti erano dosati in proporzione alla quantità degli altri ingredienti presenti nella ricetta ed erano differenti da paese a paese.

Dopo la presentazione ed un rinfresco al quale naturalmente non potevamo certo mancare, ecco anche una mini – intervista gentilmente concessa al LeoMagazine  dall’autrice Maria Concetta Salemi.

Prima di tutto: qual è il collegamento fra l’erronea definizione di “millennio buio” ed il cibo medievale?

Il cibo medievale viene caratterizzato da una serie di false credenze collegate all’idea della negatività del Medioevo, infatti si pensa che, come già detto prima (nella presentazione), nel Medioevo fossero usate quantità elevate di spezie in ogni piatto, ma in realtà vista la preziosità di quest’ultime esse erano usate con molta moderazione ed erano molto presenti solo in alcuni dei piatti della popolazione di rango più alto. Si pensa anche che la cucina medievale sia stata caratterizzata da un cattivo gusto o da una scarsa igiene, eppure è proprio dalla cucina medievale che nasce per intero la cucina odierna, il gusto del cibo è apprezzato differentemente a seconda del luogo delle tradizioni di chi lo mangia ed è quindi difficile definire un’intera cucina caratterizzata da un “cattivo gusto”. Riguardo all’igiene venivano effettuati rigorosi controlli su qualsiasi cibo fosse venduto all’epoca. Anche per quanto riguarda la tavola insomma, pregiudizi, luoghi comuni e false credenze sull’età di mezzo sono decisamente in eccesso.

Ci sono piatti particolarmente complessi fra quelli della cucina medievale nel libro? E quali sono i piatti di quest’ultima che sono stati maggiormente ripresi dalla cucina odierna?

Piatti veramente complessi non ce ne sono, certo per alcuni può essere un po’ più difficile trovare gli ingredienti visto che molti sapori medievali sono caduti in disuso, ma niente di più. Di piatti ripresi dalla cucina odierna ce ne sono tanti, alcuni esempi sono: il budino di mandorle di cui abbiamo parlato prima (sempre nella conferenza), il papero all’arancia che era preparato diversamente dall’anatra all’arancia francese, anche se in definitiva questa ne è appunto una versione ripresa e in parte modificata; abbiamo poi i fegatini che venivano però preparati con alcune spezie e con l’uvetta. Singolare è la “carbonata” che per molti sarebbe una sorta di “antenata” medievale della bistecca alla fiorentina (che è molto più tarda). In realtà non è così: consisteva in semplici fette di manzo salate che venivano servite nelle taverne per far bere i clienti. Le ostriche erano addirittura arrostite perché da umide avrebbero causato danni ai consumatori. Insomma la cucina medievale era molto precisa e aveva le sue regole, è quindi diversa dalla cosiddetta “cucina della nonna” di cui si parla oggi, ma costituisce comunque la radice della nostra cultura culinaria.

Maria Concetta Salemi, Mangiare nel Medioevo. Alimentazione e cultura gastronomica nell’età di mezzo, Firenze, Sarnus, 2018, pp.152, €15,00.

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