La sequenza delle morti sul lavoro continua e purtroppo non arresta la sua corsa. Si tratta di una vera e propria strage silenziosa, di cui spesso non sentiamo parlare, fatta eccezione per i casi più eclatanti sui media o al telegiornale.

A livello mondiale, come affermato dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) si stima che ogni 15 secondi un lavoratore muoia a causa di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale, e che sempre ogni 15 secondi, 153 lavoratori subiscano un infortunio. Gli incidenti che si verificano annualmente sul posto di lavoro sono 317 milioni, provocando la morte di circa 6300 persone al giorno e un totale di più di 2,3 milioni di vittime l’anno.

Anche in Italia il fenomeno ha raggiunto una rilevanza allarmante, come testimonia la frequenza con cui le nostre cronache devono occuparsi di nuove perdite umane sui luoghi di lavoro. Le cause degli incidenti ovviamente variano a seconda dei singoli casi, ma le più frequenti sono: mancata informazione/formazione del personale, macchinari privi delle idonee misure di sicurezza, locali non a norma, assenza dell’apposita cartellonistica, mancanza di controllo del personale, inosservanza della normativa, eccessiva fretta e stress, superficialità nella valutazione del pericolo, assunzione di alcolici e sostanze stupefacenti.

E’ evidente come gran parte di queste cause non dipendano dal lavoratore, ma dall’ambiente e dalle condizioni di lavoro in cui si trova ad operare, e a causa della quali la sua sicurezza è messa a rischio. E’ compito infatti di enti esterni verificare l’adeguatezza del luogo di lavoro e dei macchinari coinvolti, e talvolta, purtroppo, questo non avviene nel modo corretto o non vengono prese le giuste precauzioni. Troppe volte, anche a causa del costo che ne deriva, viene posta in secondo piano la sicurezza dei lavoratori, i quali spesso non si rendono nemmeno conto dei rischi che corrono perché non ne sono stati informati.

E’ il caso ad esempio di Luana D’Orazio, giovane mamma 22enne, che il 3 maggio 2021 è rimasta intrappolata in un macchinario dell’azienda tessile a Montemurlo, in provincia di Prato, in cui lavorava da circa due anni. Il macchinario in questione è stato posto sotto sequestro e sono stati effettuati gli accertamenti necessari, in seguito ai quali è risultato che l’orditoio, che ha trascinato per i capelli la ragazza, era sprovvisto di rete protettiva. Sembra infatti che il sistema sia stato manomesso per aumentarne la produttività. La giovane inoltre, lavorando da apprendista, avrebbe dovuto essere affiancata dalla figura più esperta del supervisore, che però era assente: Luana lavorava sempre da sola con i macchinari. Le manomissioni sono state quindi la causa della morte della ragazza.

Murales raffigurante Luana e realizzato da Jorit, street artist napoletano, a Roma

Luana è solo una delle 1017 vittime di infortuni sul lavoro in Italia nel 2021. Stando ai dati pubblicati recentemente dall’INAIL (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro), le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto tra gennaio e ottobre sono state 448.110 (+6,3% rispetto allo stesso periodo del 2020) mentre sono 1.017 quelle per infortuni con esito mortale (-1,8%): risulta così un lieve calo nel numero dei morti e un aumento nel numero di denunce di infortuni rispetto all’anno precedente. L’INAIL ha anche sottolineato che sono in aumento le patologie di origine professionale denunciate che sono state 45.395 (+24,0%). Il 2020 si è concluso con un totale di 1230 vittime, con una media giornaliera di circa 3,4 morti al giorno e quindi con numeri fra i più alti di sempre, sebbene questi siano stati però probabilmente influenzati al rialzo a causa delle morti da Covid-19 avvenute fra i sanitari durante il pieno della pandemia. Bisogna infatti ricordare che i dati mensili sono in gran parte influenzati dal fattore Coronavirus: «Gli open data pubblicati – spiegano gli esperti dell’Inail – sono provvisori e il loro confronto richiede cautele, in particolare rispetto all’andamento degli infortuni con esito mortale, soggetti all’effetto distorsivo di punte occasionali e dei tempi di trattazione delle pratiche. Per quantificare il fenomeno, comprensivo anche dei casi accertati positivamente dall’Inail, sarà quindi necessario attendere il consolidamento dei dati dell’intero 2021, con la conclusione dell’iter amministrativo e sanitario relativo a ogni denuncia».

Di grande interesse è anche lo studio effettuato dall’Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre (VE) che, monitorando l’andamento nazionale nell’arco del primo semestre 2021 (chiusosi con 538 morti), ha potuto stilare una “classifica” su base geografica dei numeri assoluti delle morti sul lavoro in Italia. Nello specifico, al primo posto risulta la Lombardia, in cui si sono registrati 52 decessi. Seguono: Campania (49), Lazio (47), Puglia (41), Piemonte (38), Emilia Romagna (35), Veneto (32), Abruzzo (23), Sicilia (22), Toscana (21), Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (12), Molise e Umbria (11), Calabria (9), Marche (8), Liguria e Basilicata (7), Sardegna (6), Valle D’Aosta (1).

Altrettanto interessante è però l’ulteriore chiave di lettura che l’Osservatorio Vega fornisce rappresentando il fenomeno in una mappa del Paese che classifica le regioni con colori dal bianco al rosso a seconda dell’aumentare dell’incidenza delle morti verificatesi in ciascun territorio, raffrontata con l’incidenza media nazionale (pari a 19,4 calcolata sulla base del numero di infortuni mortali per ogni milione di lavoratori occupati).

Questi numeri ci consentono così di valutare meglio l’indice di sicurezza che si registra nelle varie regioni. Come spiega infatti Mauro Rossato, presidente dell’Osservatorio mestrino, “i dati rilevati rappresentano il rischio reale di morte sul lavoro nel nostro Paese, perché è proprio attraverso il calcolo dell’incidenza della mortalità sulla popolazione lavorativa che si descrive con maggior precisione l’emergenza. Così accade, ad esempio, che sebbene la Lombardia risulti essere la regione con il maggior numero di infortuni mortali sul lavoro, faccia invece rilevare l’incidenza di mortalità tra le più basse del Paese. Risultato: la Lombardia è una delle regioni più sicure per i lavoratori e rimane in zona bianca.”

Ma al di là delle logiche che possono sottostare alle rilevazioni ed elaborazioni statistiche ed alle differenze territoriali, resta la percezione di un fenomeno che ha raggiunto le dimensioni di una effettiva emergenza nazionale. La sicurezza – un diritto del lavoratore garantito dalla Costituzione, che conferisce al lavoro una speciale dignità nel panorama delle garanzie di legge – è attentamente disciplinata nelle leggi e nei provvedimenti degli enti ed organi preposti all’osservanza delle leggi stesse. Cosa non funziona, allora? Cosa, ancora oggi, ci pone di fronte quotidianamente ad una intollerabile sequenza di vite umane spezzate proprio là dove avrebbero dovuto trovare tutela, protezione e dignità? Probabilmente si deve guardare ad una pluralità di fattori che coinvolgono non solo l’ambito della disciplina del lavoro in senso stretto ma anche la sfera sociale o, per meglio dire, socio-economica.

Innanzitutto, la sicurezza costa. I lavoratori non solo devono essere dotati di tutti i dispositivi di protezione necessari all’attività che svolgono, ma devono anche essere adeguatamente formati sui rischi che derivano dalla loro attività lavorativa e sull’uso dei dispositivi e delle misure di sicurezza. Le prime vittime degli infortuni, ovviamente, sono i lavoratori, ma anche la stessa società coinvolta ne può risultare seriamente danneggiata: proprio per questo motivo, in effetti, i costi che gravano sul datore di lavoro per la sicurezza devono essere visti come un vero investimento a lungo termine. Invece ancora oggi, soprattutto in un momento di crisi come questo, troppo spesso si antepone la logica dell’abbattimento dei costi del lavoro, della scarsa qualificazione professionale degli operatori, della approssimativa formazione per poter generare un profitto.

Inoltre il cambiamento deve essere “trasversale” e portare ad un cambio di mentalità, all’affermarsi di una vera e propria cultura della sicurezza, di cui abbiano piena consapevolezza in primis i lavoratori stessi oltre che, ovviamente, i datori di lavoro. La semplice imposizione è una strategia imperfetta in un ambito in cui, invece, è vincente la consapevolezza collettiva e la condivisione. Dire che le norme ci sono e vanno rispettate sarebbe semplicistico nell’affrontare un fenomeno complesso come questo. Se così fosse, sarebbe sufficiente potenziare i controlli e le tutele assicurative, come ha già annunciato il Ministro del Lavoro con l’assunzione a breve di nuovi ispettori al servizio delle strutture deputate al controllo di ASL e Ispettorato Nazionale sul Lavoro.

Ma non basta. E’ necessario un impegno forte e una condivisione di intenti fra istituzioni, parti sociali e imprenditoria, una vera e propria strategia nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro che renda la sicurezza percepita non come un “male necessario” o, come già detto, un costo da ridurre piuttosto che un investimento. Perché sui luoghi di lavoro si deve ragionare in termini di “rischio” e non di “fatalità”; troppo spesso vengono confuse le due cose e si tende ad etichettare come fatalità eventi che invece una buona pianificazione nella prevenzione e la riduzione del rischio avrebbero evitato.

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