Il 20 gennaio, presso la sede Il Giardino dei Ciliegi di Firenze, si è tenuta la presentazione del libro Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne di Melania Gaia Mazzucco (pubblicato il 29 novembre 2022), organizzata dalle associazioni culturali Il Giardino dei Ciliegi e Ideerranti. L’autrice ha dialogato con la storica dell’arte Cristina Acidini, Presidente dell’Accademia delle arti e del disegno. Il libro, arricchito da immagini, si propone di raccontare la vita e un quadro di artiste, che spesso hanno trovato difficoltà a affermarsi in quanto donne, soprattutto se bionde! Non a caso in copertina c’è il quadro L’unica bionda al mondo (1963) di Pauline Boty, ritenuta artista poco credibile perché, oltre che donna, bella e persino bionda: caratteristiche che secondo qualcuno avrebbero escluso un buon cervello. Sono pregiudizi che dovrebbero almeno far sorridere in una società perlomeno teoricamente libera da discriminazioni. Il quadro raffigura Marilyn Monroe che incede elegante e gioiosa verso l’osservatore, in uno sfondo urbano affiancato da uno surreale, verde e arricchito da frivole decorazioni. L’attrice fu un grande mito amato per chi non era ma doveva essere per piacere e vendere bene: una bella stupida e ingenua, personalità rassicurante quanto costruita e diversa da quella vera, profonda, soffocata dalle richieste di mercato. Fenomeni che dovrebbero denunciare ingiustizia per tutti. Tale svuotamento dell’individuo, così umiliato, è stato e è purtroppo comune a tante donne, confinate da altri al ruolo di madri, di suore, di sorelle, di bambole… Svuotamento conosciuto da Monroe e dall’artista stessa dell’opera ironicamente intitolata: Marilyn non è l’unica bionda, ma ancor prima persona, modellata dai gusti delle masse.

L’unica bionda al mondo di Pauline Boty (1963)

Significativamente però, la prima opera affrontata è Porzia che si ferisce alla coscia (1664) di Elisabetta Sirani. Porzia, fedele moglie del cesaricida Bruto, si ferisce coraggiosamente con un pugnale alla coscia per mettersi alla prova e dimostrare innanzitutto a se stessa che è disposta a sopportare qualsiasi dolore pur di essere partecipe della vita dell’amato. Allo stesso modo le artiste di cui Mazzucco racconta sono state coraggiose nell’affrontare, per amore della creazione artistica, l’amarezza di una società che ne vorrebbe opprimere l’estro artistico, insinuando talvolta per invidia o misoginia che dietro le loro opere si celassero mani maschili. 

Porzia che si ferisce alla coscia di Elisabetta Sirani (1664)

La libertà di espressione, soprattutto per le donne, è storicamente tutt’altro che scontata, perché ambizioni e diritti sono spesso sprofondati per pregiudizi riguardo al loro talento, e magari per un tacito timore di farsi soffiare il lavoro da donnette presuntuose. L’assurdità (e pericolosità di degenerazione, come mostrano eventi anche attuali) di tale chiusura è oggi chiara alla nostra società, almeno in linea generale, anche se la scorza del pregiudizio rimarrà forse mai del tutto rimovibile.

Il diritto a realizzarsi come è lecito e si desidera è tuttavia quello che hanno chiesto artiste ingiustamente sminuite, ostacolate e private di strumenti adeguati alla formazione. L’espressione della propria sensibilità artistica – in senso lato – è quasi un bisogno primario dell’individuo non tanto (o almeno non solo!) per primeggiare e guadagnare; altrimenti compresso e alienato non condivide con l’Altro la ricchezza che porta con sé, conduce una vita insipida. Bisogno che ha portato le artiste di cui parla il libro alla scelta di un percorso difficile, a maggior ragione per gli ostacoli del pregiudizio, ma che le ha ripagate con la soddisfazione di esternare la propria inventiva viscerale, senza o prima dell’apprezzamento.

Il libro si articola nella trattazione di trentasei opere, del vissuto e della personalità delle rispettive autrici che dipingono altre donne e che quindi sono “soggetti due volte”. Ma non ci si aspetti un’austera cronologia biografica, né una pedissequa analisi che svisceri l’opera tanto da renderla astrusa: l’autrice ha conciliato con maestria lato biografico e artistico, cosicché risulti una prosa fluida che non trascura la contestualizzazione storica né biografica per l’artista, né stilistica dell’opera, presentata nei tratti essenziali che ne fanno cogliere significato e tecnica compositiva. 

Le opere sono raccolte in capitoli che affrontano un tema specifico: in particolare sono raggruppate in base a fasi e aspetti della vita di donna di cui parlano, dalla nascita alla vecchiaia, dalla maternità (che in fondo accomuna tutti gli artisti genitori delle proprie opere!) al lavoro, fino alla sessualità e alla sorellanza, all’incubo, al sogno, al turbamento. Aspetti e fasi che riguardano alla fine tutti, come del resto le asperità dovute al pregiudizio verso persone di un genere, di un’etnia, di certi ideali, alla base del quale non c’è che erronea generalizzazione, o cinico e magari compiaciuto disprezzo e senso di superiorità.

Come spiega l’autrice nell’esordio, il susseguirsi delle opere segue una cronologia interna, basata su un criterio personale, svincolato da considerazioni temporali e spaziali.

Si va da Artemisia Gentileschi, a Plautilla Nelli, Frida Kahlo, Katsushika Ōi, Marlene Dumas, Luise Bourgeois e altre spesso dimenticate, sottovalutate in quanto donne e quindi destinate a altro, all’oblio, come se incapaci di raggiungere la grandezza tecnica e intellettuale di un uomo (credenza che invece, nonostante gli impedimenti spesso posti alla loro formazione, hanno dimostrato falsa).

La lettura del libro può rinforzare la comprensione della portata umana e storica dell’arte, che fornisce strumenti a un’inestimabile capacità: leggere la realtà in modo critico e consapevole, e quindi difendersi da una pecoreccia manovrabilità, tanto cara a chi vuole portarci facilmente al burrone!

La scrittrice ci ha gentilmente concesso un’intervista per chiarire e soddisfare curiosità.

A che pubblico di lettori e alla trasmissione di quale messaggio è finalizzato il libro?

«Credo che possa essere letto sia da amanti dell’arte che vogliono fare scoperte nuove e aprire i loro orizzonti, sia da chi ama le storie: cerco un modo di raccontare i quadri che sia narrazione.

Amo il rigore scientifico di ciò che viene asserito ma cerco di trasformare le informazioni in un racconto, in questo caso storie di quadri e delle artiste che li hanno dipinti. Il pubblico è quindi potenzialmente vasto.»

Come è nata l’idea di scrivere il libro e l’interesse per il tema in esso trattato?

«L’idea è nata dopo la pubblicazione del Museo del mondo del 2014, in cui ho raccontato 52 quadri di 52 artisti. Mi sono resa conto di aver scelto tre sole artiste, quindi ho cominciato a pensare di comporre un nuovo museo. Ho iniziato ad “allestirlo” durante il lockdown del 2020; la selezione dei quadri è stata necessariamente realizzata in base a ricordi di opere che mi erano rimaste talmente impresse da poterne scrivere, pur non avendone riproduzione in libri allora inottenibili. Ho sempre avuto interesse per la storia delle donne, e infatti ho scritto diversi romanzi per dare luce ad alcune spesso ignote. Il mio primo libro, Il Bacio di Medusa (1996), racconta l’amore proibito tra due donne, che all’inizio del Novecento poteva comportare l’internamento in manicomio. Ho scritto storie di pittrici, come Marietta Tintoretto figlia di Tintoretto, e Plautilla Bricci, l’architettrice, artista dimenticata del Seicento e prima donna architetto dell’Europa moderna. È un tema che ha attraversato gran parte della mia ricerca e in questo caso è il tema dell’opera.»

Che funzione pensa che possa avere l’arte nella società odierna?

«Una cosa che mi ha fatto sempre piacere è per esempio constatare che l’arte contemporanea è molto amata dai giovani. Credo che l’arte abbia sempre molto da dire: gli artisti di oggi sono ancora capaci di realizzare opere che contestano, turbano, affascinano. Possono far pensare, cosa che è sempre rientrata nelle prerogative dell’arte. Essa infatti da una parte consola con la bellezza, dall’altra urtica con la forza dell’immagine, che va a toccare e mettere in discussione sentimenti e visioni del mondo. Riesce a cogliere costanti dell’animo umano e raccontare con immagini talvolta sorprendenti ciò che succede e cui altrimenti non prestiamo attenzione o che non comprendiamo. Ad esempio negli ultimi anni gli artisti si sono interrogati su come raccontare le migrazioni epocali dei popoli, tema attualissimo del nostro tempo. Penso ai palazzi coperti di salvagenti da Ai WeiWei per esprimere la vastità tragica del fenomeno, oppure il video in cui sulla scala di un aereo salgono persone che non sanno se potranno mai partire e arrivare: l’aereo non c’è, la scala è nel vuoto (Centro di permanenza temporanea, 2007, Adrian Paci), immagini estranianti ma assai icastiche. »

Come è nato il suo interesse per l’arte?

«È nato dalla mia passione per la visione e il linguaggio delle immagini. Quando ero ancora una studentessa di letteratura contemporanea, a Venezia vidi un’opera di Tintoretto, maestro del Cinquecento che non avevo mai guardato veramente (La presentazione di Maria al tempio). Allora ho cominciato a chiedermi come comprendere opere così lontane da me, per la decifrazione delle quali non avevo strumenti conoscitivi adeguati. Ho capito che dovevo farmi guidare dall’opera stessa: dovevo soffermarmi su forme, colori, figure, struttura, prima di capire cosa si rappresentasse o si volesse dire. Questa è stata la chiave che mi ha permesso nel tempo di poter raccontare tutto ciò.»

Quali sono gli artisti e le artiste che l’hanno più colpita e come secondo lei riescono a emergere dalla massa?

«Non posso affrontare la questione del ‘mercato dell’arte’, centrale nel panorama contemporaneo, che ovviamente influenza molto, scegliendo spesso per noi ciò che possiamo o dobbiamo conoscere. Ma al di là di tutto questo, sono attratta dalle artiste e dagli artisti che continuano a credere nell’opera – e non nell’arte “gassosa” e dematerializzata oggi così in voga. Penso a due delle pittrici contemporanee come Marlene Dumas e Jenny Saville, che ho incluso in Self portrait; ma anche al maestro Anselm Kiefer, a Lucian Freud, Jan Fabre, El Anatsui, Anish Kapoor, Shirin Neshat…»

L’arte in effetti, grazie alla sua forza e immediatezza, può comunicare qualcosa a chiunque, in modo più o meno superficiale. È un bene che dobbiamo impegnarci a custodire e valorizzare non solo per un piacere che scaturisce dalla contemplazione, per dare spazio all’individuo nelle sua necessità di far uscire percezioni che altrimenti rimarrebbero incomprese, incomplete e sospese, ma anche per aprire gli occhi alla realtà che è stata e è! A pensare questo, non si può avere che rammarico per tutti coloro che per pregiudizi e incomprensione non hanno potuto realizzarsi, e desiderio che l’arte non venga ridotta a una faccenda di puro, vuoto, straniante marketing.

5 1 vote
Article Rating