Una testimonianza preziosa direttamente da Kabul. Padre Giovanni Scalese, sacerdote Barnabita, è stato fino al 25 agosto scorso superiore della missione cattolica Missio sui iuris dell’Afghanistan istituita da Giovanni Paolo II nel 2002. È stato tra gli ultimi a lasciar la sede dell’ambasciata italiana nella capitale afghana, dove era rimasto per tutelare e raccogliere la piccola comunità di 5 suore missionarie della Carità con 14 bambini disabili loro affidati. Un gesto coraggioso degno di un vero sacerdote, che è stato notato e apprezzato ovunque.

Padre Scalese è peraltro un personaggio noto, stimato e anche rimpianto a Firenze: è stato infatti docente di storia e filosofia nel prestigiosissimo e storico “Collegio alla Querce”, di cui è stato anche rettore dal 1994 al 1999, poco prima della sua chiusura dopo circa un secolo e mezzo di gloriosa e benemerita attività. Un’istituzione che ha formato intere generazioni di fiorentini e parte della classe dirigente della città, con un bellissimo motto Ingentes tendat ramos et tempora cingat, di origine parzialmente virgiliana. Dopo la sua partenza da Firenze, è stato dal 2000 al 2006 assistente generale del suo ordine e dal 2003 al 2009 missionario nelle Filippine e in India. Negli ultimi sette anni è rimasto invece a Kabul, superiore della missione; un incarico certo non tra i più “tranquilli”. Gli siamo profondamente grati di aver accettato di rispondere ad alcune nostre domande. 

Padre, lei è rimasto in Afghanistan per sette anni; può fare un bilancio di questa esperienza?

Beh, umanamente parlando, il bilancio non può che considerarsi fallimentare. Non posso esibire alcun “successo”. La mia attività pastorale, per forza di cose, si è limitata in questi anni alla sola celebrazione della Messa; altre attività, date le circostanze, non erano possibili. La stessa frequenza alla Messa domenicale, che era già esigua al mio arrivo, in questi anni si è venuta progressivamente riducendo sia per la diffusa secolarizzazione fra gli occidentali presenti in Afghanistan, sia per le restrizioni dovute a motivi di sicurezza. Negli ultimi due anni poi, come se non bastasse, si è aggiunta la pandemia, che ha impedito la partecipazione di fedeli esterni alla Messa. In quest’ultimo anno è stata autorizzata la presenza alla liturgia domenicale esclusivamente alle Suore (che in precedenza venivano a Messa ogni giorno). Fortunatamente, le vie del Signore non sono le nostre vie; per cui, a prescindere dai risultati immediati dei nostri sforzi, sappiamo che Dio agisce nel modo che lui solo conosce. E solo lui può fare un bilancio reale, che a noi rimane in gran parte ignoto. 

Si parla molto di questo paese a livello massmediatico, ma nella realtà se ne conosce ben poco; qual è a suo giudizio il suo vero volto?

Essendo stato molto limitato nei miei movimenti, non posso dire di conoscere adeguatamente il Paese dove ho vissuto per sette anni, un periodo che, in condizioni normali, sarebbe piú che sufficiente per farsi un’idea dell’ambiente in cui ci si trova. L’idea che mi son fatto è quella di un Paese composito, formato da diverse etnie, spesso in conflitto fra loro. Anche dal punto di vista religioso, pur trattandosi di un Paese nella quasi totalità islamico, esistono diverse confessioni (sunnita e sciita), che non favoriscono una convivenza pacifica. Si tratta però di un popolo cosciente della propria identità nazionale, fiero della sua storia (che non si identifica con la storia dell’Islam) e della sua indipendenza, non disposto a farsi sottomettere. Le grandi potenze (prima gli inglesi, poi i sovietici, ora gli americani) hanno dovuto fare i conti con questo carattere indomito del popolo afghano.

Veniamo ai drammatici eventi degli ultimi giorni; come li ha vissuti, lei e la comunità cattolica?  Come mai, a suo parere, c’è stato questo precipitoso epilogo?

Nessuno di noi si aspettava una fine così repentina. Eravamo tutti convinti che, dopo tanti anni di sostegno al governo, all’esercito e alle forze di sicurezza afghane, l’avanzata dei talebani sarebbe stata molto più lenta e contrastata e che, a un certo punto, le due parti sarebbero state costrette a sedersi intorno a un tavolo e trovare un compromesso per un governo di transizione. Invece, governo, esercito e polizia si sono dissolti improvvisamente come neve al sole, spianando la strada ai talebani che praticamente si sono ritrovati il potere in mano senza colpo ferire. Tutto sommato, forse, è andata bene così: almeno, il rischio di una guerra civile, che sarebbe stata devastante, è stato evitato. Il fatto che la presenza ventennale delle forze occidentali, che dichiaravano di essere andate in Afghanistan per combattere il terrorismo e per fare di questo Paese una democrazia sul modello occidentale, si sia conclusa in questo modo dimostra che le istituzioni create in questi anni non erano affatto radicate nella società afghana e fa sorgere il sospetto che le reali motivazioni che ci avevano portato in Afghanistan fossero diverse da quelle ufficialmente dichiarate. Come abbiamo vissuto noi cattolici questa situazione? Con una certa apprensione, come è ovvio che fosse, ma anche con una serenità di fondo, consapevoli che non eravamo soli. Abbiamo sperimentato la protezione divina e anche la vicinanza di tanti fratelli nella fede che in quei giorni pregavano per noi in ogni parte del mondo. 

In Occidente, la parola “talebano” è diventata sinonimo di pericoloso e intollerante fanatico; non tutti però (ad es. lo storico Franco Cardini) condividono questo punto di vista. Lei cosa ne pensa e quale è stata la sua esperienza al riguardo? È possibile a suo parere un dialogo con loro?

Ovviamente, tutte le cose possono essere viste da diversi punti di vista. Quelli che per noi sono gli eroi del Risorgimento erano considerati dagli austriaci dei terroristi; un’accusa analoga potrebbe essere rivolta ai nostri partigiani. Lo stesso duplice atteggiamento può essere assunto nei confronti dei talebani: quello che in questi anni è stato considerato un gruppo terrorista, da altri potrebbe essere considerato un movimento di patrioti. Non sta a me esprimere un giudizio in materia. Mi limito a constatare che, negli ultimi anni, gli americani hanno stabilito con loro un negoziato diretto, che li ha di fatto legittimati, e hanno concluso con loro un accordo, di cui nessuno conosce con precisione i contenuti. Dal mio punto di vista, ovviamente si può non essere d’accordo con i valori a cui si ispirano i talebani, però va serenamente riconosciuto che hanno dei valori in cui credere. Purtroppo, ai nostri giorni non si può dire lo stesso dell’Occidente. Credo che il dialogo sia uno strumento che vada utilizzato sempre, nei confronti di tutti. Non si dialoga solo con gli amici; il dialogo ha un senso soprattutto quando si fa con quanti non sono d’accordo con noi. La politica e la diplomazia, dal mio punto di vista, devono essere realiste: oggi al potere in Afghanistan ci sono i talebani. Non credo che convenga a nessuno, tanto meno al popolo afghano, isolare e demonizzare questo Paese.

Una delle questioni più delicate e sentite è quella della condizione femminile; quali sono adesso le prospettive per le donne afgane? C’erano stati dei miglioramenti in questi anni?

Non saprei. I talebani hanno dichiarato che riconosceranno i diritti delle donne, nell’ambito della sharia. Che cosa significhi questo, non lo so. So solo che le donne svolgevano un ruolo importante nella società afghana. Solo un esempio: un paio d’anni fa, andai a fare le analisi del sangue in un laboratorio; erano tutte donne! Penso che sarà un po’ difficile anche solo pensare di rinchiudere le donne in casa o imporre loro l’uso del burka. Le manifestazioni di questi giorni lo stanno a dimostrare.

Può fare qualche ipotesi sui possibili prossimi scenari? In futuro, pensa di poter tornare a Kabul? 

Difficile fare ipotesi: troppi sono i fattori in gioco. Una convinzione che mi sono fatto in questi anni è che ciò che non poterono politica, diplomazia e forza militare, potrà l’economia… Se l’Afghanistan riuscirà a ritrovare un po’ di pace e di stabilità, potranno arrivare investimenti esterni che permetteranno al Paese di svilupparsi, con effetti positivi anche in altri settori. Un eventuale ritorno a Kabul non dipende da me. Ogni decisione è riservata alla Santa Sede, la quale — ne sono sicuro — non appena vedrà che ci sono le condizioni per una ripresa delle attività pastorali e caritative, provvederà a nominare qualcuno — me o un altro — come responsabile della Missione.

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