Soumaila Diawara, attivista politico, è stato costretto nel 2012 a lasciare il suo paese, il Mali, per una presunta e infondata aggressione nei confronti dell’allora Presidente del Parlamento. Durante la sua fuga è stato incarcerato in Libia, dove ha vissuto per più di un anno in mezzo alla reclusione e alla violenza dei lager. Per fortuna alla fine è riuscito a raggiungere le coste dell’Italia trovando un rifugio sicuro dove vive tutt’ora, facendo lo scrittore. In questa intervista esclusiva racconta la sua storia, ma prima di tutto è meglio fare un po’ di chiarezza sull’intricata situazione geopolitica dell’Africa centro – settentrionale di quegli anni, per poter procedere ad una lettura più chiara.

Dopo la guerra di Libia, e la conseguente caduta di Gheddafi nel 2011, molti mercenari tuareg (popolazione rurale del deserto decisa alla riconquista del territorio che si era vista sottrarre in seguito alla formazione di stati moderni, come Libia, Mali e Burkina Faso) decisero di tornare in Mali, portando con sé buona parte degli armamenti utilizzati in Libia. Armamenti che quindi sono finiti nelle mani della MNLA ( movimento nazionale di liberazione dell’Azawad), creando un terribile squilibrio tra le forze dei militari nazionali del Mali, e quelle dei ribelli tuareg che miravano all’indipendenza. Per questa rinnovata forza, e per l’alleanza con molte organizzazioni terroristiche, tra cui figura la tragicamente troppo nota Al – Qa ida nel Maghreb islamico, si verificò nel 2012 la quarta ribellione tuareg, che si concluse in breve con la riconquista dell’Azawad e dei due terzi dello stato del Mali, governati dagli occupanti con una feroce teocrazia.

Così il generale del Mali, Amadou Sanogo, e il suo esercito messo alle strette, decisero di organizzare un colpo di stato, rovesciando il precedente governo del presidente Amadou Toumani Touré, e gettando il paese nel caos fino alle elezioni del suo successore, Dioncounda Traorè.

E’ proprio in questo clima di violenza generale che prende forma la storia di Diawara.

Può raccontarci velocemente la sua esperienza in Mali? Per quali motivi è stato costretto a scappare?

” Nel periodo di tempo che va da quando mi sono laureato fino allo scoppio della guerra in Libia lavoravo con un partito politico e mi occupavo della comunicazione. Dopo la sconfitta di Gheddafi nel 2011, c’erano i soldati miliziani tuareg che hanno deciso di ritornare in Mali. Visto che erano soldati armati, abbiamo cercato di trovare una soluzione per farli entrare in Mali senza le loro armi. Eravamo partiti all’opposizione che si sono messi insieme con la società civile, ma tutto quello che potevamo fare erano delle proposte,  non potevamo decidere al posto del governo. Quando ci siamo accorti che le cose non fossero andate come avremmo voluto la guerra era già scoppiata. Dopo lo scoppio della guerra, i militari maliani si sono ritrovati in difficoltà, trovandosi a combattere non solo contro questa associazione indipendentista (tuareg), ma anche contro alcuni gruppi terroristi loro alleati. Per le difficoltà riscontrate sul campo, i militari sono tornati nel paese e hanno organizzato un colpo di stato, e il presidente, che si era già dimesso ed era andato in Senegal, fu costretto a lasciare il potere in modo definitivo. Come prevede la costituzione maliana, in una situazione del genere, essendo il Mali uno stato a modello francese, il Presidente del Parlamento diventa Presidente della Repubblica per 40 giorni, e in quei giorni bisognava organizzare le elezioni, ma questo non era possibile vista la situazione del paese.  La stessa costituzione del paese prevede che anche se al centro del territorio occupato ci sono degli elettori che non possono andare a votare non si possono organizzare le elezioni: eravamo il 60% in uno spazio tre volte più grande dell’Italia dove c’erano quattro milioni di elettori che non potevano andare a votare. Abbiamo allora deciso di organizzare Conferenza Nazionale e di decidere chi sarebbe stato il Presidente della Repubblica. Abbiamo anche incontrato in il Presidente del Parlamento, che era Dioncunda Traoré, che ha deciso di organizzare con noi la conferenza visto che 40 giorni dopo ci sarebbero state le elezioni. Il giorno della conferenza però non si è presentato, abbiamo saputo che era stato aggredito al palazzo presidenziale ed era sparito subito dopo. Sei mesi dopo è tornato, e ha cominciato ad arrestare le persone, dicendo che fossimo stati noi, gli organizzatori della conferenza, ad aggredirlo. Ovviamente era falso: aveva solo il bisogno di eliminare gente che dava fastidio, per mantenere il potere, visto che stava perdendo consensi e di credibilità. Io in quel periodo mi trovavo in Burkina Faso per una conferenza, e, tramite un amico che aveva il padre che lavorava nei servizi segreti maliani, sono stato informato che sul fatto che il mio nome figurasse sulla lista delle persone che stavano arrestando. Dal Burkina Faso sono quindi andato in Algeria, dove sono rimasto un anno, e poi da lì in Libia, dove sono stato incarcerato. “

Può raccontarci come è stato vivere in prigione e quale sia la situazione nei lager libici?

” Lì la situazione a volte era al limite, e ho visto tante persone che non avevano la possibilità di pagare il riscatto per uscire dal carcere. C’erano tanti ragazzi che accumulavano più soldi possibile per pagarsi il riscatto senza riuscirci, o altri costretti alle attività nei campi. In carcere, nella mia cella, eravamo circa trenta persone, ed era abbastanza difficile trovare una posizione per dormire ci incastravamo l’uno tra le gambe dell’altro prima di andare a dormire. Questa era la situazione. Per mangiare ci davano un panino al giorno e l’acqua. Le guardie carcerarie non permettevano di ribellarsi: non erano tante le possibilità di andare a Tripoli.”

Com’è stato il viaggio in mare per arrivare in Italia?

” Il viaggio è stato devastante perché siamo partiti nel 2014 che eravamo 120 su un gommone, dopo c’è stato un naufragio in cui ci siamo salvati in pochi, grazie alla guardia costiera che recuperava le persone arrivate sulla spiaggia. Il giorno dopo in 25 siamo ripartiti e siamo stati salvati dalla marina militare italiana.”

Com’è stato trovarsi in un paese nuovo come l’Italia? E qual è stato il posto più accogliente che ha trovato?

” All’inizio mi è sembrato un mondo completamente nuovo in cui mi sentivo al sicuro, perché ero stato salvato e non ero più in pericolo, questo mi rendeva tranquillo.

Quando si parla di accoglienza si guarda il comportamento delle persone nei nostri confronti, e per quanto mi riguarda ovunque sono stato in Italia mi sono trovato bene con la popolazione.”

Di che cosa parla il suo ultimo libro: ” Le cicatrici del porto sicuro” ?

” Parla del mio viaggio, de mio percorso fino in Italia, ho fatto dei video intervista alle persone che stanno in carcere o nei lager per raccontare le loro realtà. Questo libro serve a far capire cosa accade realmente a tutte le persone che condividono la mia storia. Si parla anche della realtà geopolitica e della terribile situazione del paese che spinge milioni di persone a fuggire dall’Africa.”

Un messaggio che vorrebbe mandare per far riflettere le persone? ” Credo che si debba imparare a guardare le persone per quello che sono, senza concentrarsi sulla religione, la provenienza geografica o l’orientamento sessuale. In questo momento riusciremo a scavalcare questo muro di paura avvicinandoci alle persone, perché parlando ci si rende conto quali siano le problematiche che spingono queste persone a fuggire e a rischiare la loro vita. Quindi è solo scavalcando questo muro di paura che riusciremo veramente a risolvere i problemi.”

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