Il magistrato Paolo Borsellino nacque nel quartiere popolare della Kalsa di Palermo il 19 gennaio del 1940 da una famiglia modesta; i destini di Borsellino e Falcone si incrociano già nel campetto di calcio in cui giocavano da ragazzini.

Dopo il liceo classico si iscrisse nel 1958 all’Università degli Studi di Palermo. L’interesse per la politica lo porta a far parte del Fronte Universitario d’Azione Nazionale, organizzazione di universitari che si ispirava al Movimento Sociale Italiano, partito che, sia pure con molte anime, si considerava erede del fascismo.

Nel 1962, in seguito alla laurea con lode, morì il padre lasciando una farmacia da amministrare e la famiglia in ristrettezze economiche (problematica che risparmiò al giovane il servizio militare di leva, in quanto era il solo a poter mantenere madre e fratelli). L’anno seguente divenne con un concorso il più giovane magistrato in Italia.

Nel 1975 venne trasferito presso l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, dove iniziò la sua vera e propria lotta alla mafia che corrompeva la sua nazione, la sua città in particolare: il suo disprezzo iniziale per Palermo si trasformò in amore dal momento in cui cercò di cambiare secondo giustizia le cose che non gli piacevano. Il capo dell’Ufficio istruzione Rocco Chinnici, altro personaggio emblematico dell’antimafia, instaurò con Borsellino un profondo legame di amicizia. Chinnici fu l’ideatore del pool antimafia, un gruppo formato dai giudici istruttori in cui chiamò Borsellino, oltre che Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, ma non fece in tempo a presiederlo che la sua vita fu spezzata nel luglio del 1983 da Cosa Nostra. Il pool fu istituito nello stesso anno e vide Antonino Caponnetto a capo; godette per un certo periodo di una grande efficacia, grazie a un metodo di lavoro basato sulla collaborazione, sul tracciamento dei traffici di capitale e di stupefacenti, la totale dedizione all’indagine sulla criminalità mafiosa: veniva scoperto un mondo assai articolato che altrimenti non si poteva immaginare, quello della feroce, gerarchica e sempre più potente organizzazione mafiosa.

Nella sua penultima intervista, (detta “nascosta” per la titubanza con cui si decise di trasmetterla, otto anni dopo la sua morte) avvenuta due giorni prima della strage di Capaci, Borsellino raccontava infatti come nell’ultimo ventennio la mafia fosse cresciuta economicamente grazie all’altrettanto crescente (e allarmante) popolarità nel mondo del consumo di stupefacenti, ai legami sempre più fitti tra mafia e politica.

Grazie alla collaborazione del pentito Tommaso Buscetta e non solo l’organizzazione venne compresa maggiormente e furono centinaia gli uomini d’onore scoperti e catturati.

Con la perdita del capitano Emanuele Basile avvenuta il 4 maggio del 1980, anche a Borsellino e alla sua famiglia fu assegnata la scorta: nel 1968 infatti aveva nel frattempo sposato Agnese Piraino Leto, con cui ebbe tre figli. Si immagini la loro sensazione nell’essere costantemente seguiti da una scorta, nel sentire la propria vita a rischio, nel sacrificare una vita intima e tranquilla che ci sarebbe stata vivendo nell’indifferenza o nell’azione complici della mafia. Alla domanda spontanea “perché lo fai? Perché mettere a rischio la vita tua e di chi ami?”, Borsellino rispondeva sicuro che quella era la strada in cui si era trovato e da cui non intendeva ritirarsi, dato il suo ribrezzo per la vita tranquilla circondata però da omicidi crudeli e tutto il resto che implica la criminalità impunita, data dunque la necessità del suo impiego. Forse c’è chi da sempre è stato guidato a non fare caso a commettere o subire sopraffazioni, chi lo ha imparato con l’abitudine, ma è impossibile cancellare del tutto dalla propria coscienza l’umana consapevolezza che non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te è generalmente più giusto del contrario. Non è facile pensare che un boss mafioso gradirebbe il trattamento da lui riservato ai sottomessi, a parti invertite. Ancora più difficile è far credere che il profumo della libertà di cui parlava il nostro magistrato sia peggiore del puzzo dell’oppressione e della corruzione senza scrupolo. Combattere contro tale oppressione, pesati i rischi che da una o l’altra parte si correrebbero, (senza necessariamente avere una laurea in giurisprudenza, ma agevolando la realizzazione di giustizia) non è che il risultato di queste constatazioni.

Nell’estate del 1985 Borsellino e Falcone furono confinati nell’isola di Asinara con le famiglie per un soggiorno in difesa della loro incolumità; allora si buttarono a capofitto nel compimento di una corposa raccolta di dati sugli indagati per mafia, da cui scaturì il Maxiprocesso di Palermo (1986-1987), il più grande processo penale tenutosi al mondo, che contò ben 342 condanne, la maggior parte delle quali confermate anche nel terzo e ultimo grado di giudizio.

Nel frattempo, nel 1986 Borsellino aveva ottenuto su richiesta l’incarico di Procuratore della Repubblica (per tale nomina si trasferì a Marsala, riaprendo o lavorando su casi di criminalità): il proprio decentramento secondo lui sarebbe forse stato un modo per allontanare l’attenzione dei mafiosi verso il capo di un gruppo di magistrati magari anche troppo coeso. Tuttavia questa azione fu aspramente criticata dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che in un suo articolo del Corriere della Sera bollò Borsellino e i suoi colleghi più vicini come “professionisti dell’antimafia” con ironia sprezzante.

Borsellino fu colpito amaramente dalle parole di Sciascia, ma le sue non furono le sole accuse (immeritate) che ricevette: nel 1991 fu chiamato “insabbiatore” o “scippatore di inchieste altrui”; la polemica nacque dalla pubblicazione di rivelazioni del pentito Rosario Spatola – che con lui si era confidato – delle quali non fu riscontrata la veridicità: Borsellino le fece archiviare secondo la legge, non avendolo informato su ciò chi aveva pubblicato tali resoconti.

L’evento che deluse maggiormente Borsellino fu la scelta nel 1988 del successore di Antonino Caponnetto come capo del pool antimafia: l’amico Falcone avrebbe avuto la giusta esperienza e conoscenza della situazione per presiedere e mandare avanti il pool, ma il CSM (Consiglio superiore della magistratura) elesse Antonino Meli (sotto la cui guida il pool si sciolse in breve) con motivazioni che Borsellino definì risibili, che mal celavano il clima di emarginazione al quale fu condannato Falcone dalla stessa magistratura; invidia e malevolenza di alcuni colleghi furono denunciate con coraggio anche da Borsellino con non meno durezza della denuncia alla spietatezza mafiosa. Tale isolamento nel proprio mestiere fu sperimentato da lui stesso e la sua morte venne attribuita dalla moglie anche al disinteressamento dei colleghi verso di lui.

Nelle interviste che egli rilasciò, spesso emerge lo scontento verso la negligenza di colleghi o politici nel supportare i giudici che combattevano sul serio il crimine nel tentativo di sviscerare una questione da sempre coperta da mistero e che chiedevano un aiuto altrettanto serio da ogni cittadino, prima di tutto da chi ne è rappresentante e può agire in genere più in grande. Tale categoria di giudici definiti “sovraesposti” si trovava spesso dimenticata e esposta a rischio, più che a un’agognata idolatria pubblica, come insinuato da malevoli o scettici. Il loro scavare a fondo non era inoltre apprezzato da tutti, soprattutto da chi poteva perderci la reputazione.

Già nel 1991 si progettava la morte di Borsellino, come svelatogli dal pentito Vincenzo Calcara, il quale confessò di essere stato felice dell’incarico di ucciderlo – sebbene tale confessione sia stata poi smentita -, abbracciando infine lo stesso magistrato. Questi si sorprese molto del fatto, che rivela forse un briciolo di umanità slegata dalle totalizzanti “leggi” mafiose. Del resto gli uomini che si arruolano almeno in parte sono persone che hanno perso fiducia nello Stato, si sentono piccole se non circondate da un confortevole alone di onnipotenza sulla vita altrui, quindi di potere sociale e economico, non importa quanto moralmente turpe. E i collaboratori di giustizia sono pentiti, ma ancor prima che pentiti forse stufi della vita da topo di nascondimenti e sotterfugi continui che si riducono a fare pur di giocare a fare i grandi, sottomessi a feroci conflitti tra cosche e alle decisioni delle propria, che si rimette ovviamente a una stretta cerchia di più potenti.

Arriva quindi il 1992, anno di perdita di due uomini che avevano in parte scosso gli italiani diventati più fiduciosi in una società pulita. Indizio dell’importanza nazionale acquisita – sebbene spesso infossata – è che Paolo Borsellino ottenne diversi voti come Presidente della Repubblica, senza però effettivamente conseguire l’incarico (che toccò a Oscar Luigi Scalfaro).

Il 23 maggio la strage di Capaci spezzò la vita di Falcone, la moglie e tre agenti di scorta. Solo 57 giorni dopo fu il turno dell’amico, tornato a Palermo, addolorato per la perdita quanto rassegnato che quella morte sarebbe toccata anche a lui, e a breve. Questi giorni furono assai cupi per il magistrato, che potremmo immaginarci depresso e dunque inattivo, ma che invece continuò freneticamente i suoi interrogatori a collaboratori di giustizia che sceglievano lui come confidente perché in lui riponevano fiducia.

L’allora capo della Procura nascose a Borsellino un’informativa del ROS (Raggruppamento operativo speciale) che comunicava l’imminenza del pericolo di attentato nei suoi confronti, e questo è solo un esempio dello stato in cui lasciarono il magistrato. Un altro è la sua richiesta di ascolto: dopo la morte di Falcone lui sapeva più di tutti, poteva collaborare nella ricerca dei colpevoli, e dopo tanta determinata insistenza, ottenne di fissare per il 20 luglio tale udienza, peccato che non poté fare in tempo… Così il 19 luglio al passaggio del giudice fu fatta esplodere su decisione di Cosa Nostra un’autobomba in via D’Amelio parcheggiata davanti alla casa dove vivevano la madre e la sorella: rimasero uccisi, oltre a Borsellino, cinque agenti di scorta, un solo agente sopravvisse. Il funerale del 24 luglio di Borsellino fu privato, come deciso dai familiari che rifiutarono la cerimonia di Stato per la mancata premura dello Stato verso il giudice. Per questa stessa ragione l’attentato a Borsellino fu chiamato dal fratello e altri come “strage di Stato” (ossia un attentato volto a stravolgere l’ordine statale, con la partecipazione di personalità di Stato). Strage di Stato o meno, la scomoda e triste verità è che non è scontata l’integrità nemmeno di chi dell’onestà dovrebbe fare mestiere: quando si parla di corruzione nessun pregiudizio, nessun titolo può bloccare la ricerca della verità.

Strage di via D’Amelio e le sue vittime

Borsellino era preparato a morire per ciò che faceva, ma, citando una sua frase, chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola. La paura, ribadiva lo stesso giudice, è insita nella natura umana, ma se ne evita la sopraffazione col coraggio, con la consapevolezza della necessità dell’impegno che lui e altri si sono presi di non lasciare che alcun tabù dia il via libera alla criminalità, di ammonire le nuove generazioni di stare in guardia contro chi calpesta gli altri per il tornaconto personale perché è intollerabile.

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