Rocco Mangiardi e Tiberio Bentivoglio, le storie di due uomini che hanno avuto il coraggio di saper dire “no”: due testimoni di giustizia che hanno osato opporsi alla criminalità organizzata raccontano nei giorni scorsi (martedì 4 aprile) la loro storia agli studenti del liceo Leonardo da Vinci ; ascoltarli e prendere esempio da loro è senza dubbio un grande onore.

Il primo a prendere la parola è Rocco, il quale ci ha raccontato la sua storia cercando a noi uditori di “scaldarci il cuore” scegliendo di raccontare il bello e il buono.
Rocco è un piccolo imprenditore locale, ha un’attività a Lamezia Terme (Cz), in via Del Progresso, uno dei tanti negozietti che ci sono in quel affollato corso lametino, dove nel 2006 tutti i commercianti pagavano il pizzo. Nel negozio di Rocco, entrano, comprano e si informano sui prezzi alcune persone, le stesse persone che qualche tempo dopo prendono Rocco sottobraccio e lo minacciano, vogliono un “pensierino” o sennò avrebbero fatto del male ai suoi figli. Il “pensierino”, di ben €1200 al mese, Rocco non vuole pagarlo, nonostante la paura per i suoi famigliari e per la sua stessa incolumità, ma sa che è la cosa giusta da fare. Mangiardi sa che pagando quei soldi, non solo avrebbe ceduto a questi “uomini d’onore”, ma avrebbe dovuto (per recuperare quei soldi) licenziare un padre di famiglia che lavorava con lui. “La mafia non dà lavoro, bensì toglie il lavoro. Perché la gente, senza soldi e senza lavoro, va a cercare soldi da loro,” ribadisce Rocco. Mangiardi sa che deve riportare questa storia ai suoi figli, non vede l’ora di tornare a casa, sedersi davanti a loro e raccontare quello che è successo, perché Rocco vuole insegnargli che i problemi vanno superati, gli ostacoli vanno saltati, che bisogna alzare la testa ed accorgerci che abbiamo gli amici, i genitori e gli insegnanti intorno a noi, pronti a darci una mano. Gli occhi della figlia, per Rocco, non danno altre interpretazioni: “guai a te se ti arrendi e paghi”. Così all’indomani il commerciante lamentino va a denunciare spinto dalla positività delle persone che, fortunatamente, ha incontrato nella sua vita. Mangiardi oltre a denunciare, fa dell’altro, aiuta le forze dell’ordine: incontra il boss, registrando la conversazione, in modo da aiutare i giudici al processo grazie a questa importante testimonianza. Un momento bellissimo avvenne in aula, durante un processo, come ci racconta Rocco: “il giudice mi chiese se conoscessi Pasquale Giampà (boss della famiglia Giampà all’epoca dei fatti, detto “Millelire”) e mi chiese di indicarlo, gli puntai il dito e vidi una persona paurosa, quello lì non sapeva dove nascondersi e sapete perché? Perché dicono che in Calabria queste cose non succedono spesso e non si aspettano che un cittadino piccolo vada in un’aula di un tribunale e dica sei stato tu. E lì pensai queste parole: Il nostro dito puntato nelle aule di un tribunale è molto più potente delle loro pistole e riusciamo a sconfiggerli solo dicendo no.” Grazie anche all’aiuto di Angelo, un ragazzo che lavorava per i Giampà c successivamente all’arresto si pentì e la cosca dei Giampà venne messa spalle al muro. Rocco finisce la sua storia, parlando di come per quelle “persone” la vita umana avesse un costo, dai €20000 ai €25000 euro; questo era il prezzo che dovevano pagare per assumere un killer ed uccidere una persona. Il costo variava in base alla provenienza del sicario: infatti ai €20000 bisognava aggiungere, se il killer non fosse calabrese, la spesa della “trasferta”.

Prende ora la parola Tiberio Bentivoglio, prima dipendente in farmacia (il cui datore di lavoro venne sequestrato dall’”Anonima Sequestri”) poi imprenditore, che insieme alla moglie Enza Falsone, è riuscito, con tanti sacrifici, a coronare il suo sogno: essere commerciante ed essere indipendenti economicamente. Così tra fine anni ’70 e anni ’90 Tiberio ed Enza si affermano con un negozio di prodotti per neonati a Reggio Calabria. Tra il 1985 e il 1991, però, a Reggio Calabria avvenne “la faida più grande del mondo” (così viene definita da Tiberio). Ma di cosa si tratta? La faida, meglio conosciuta come “seconda guerra di ‘ndrangheta”, fu una lotta tra le famiglie De Stefano ed Imerti (e conseguenti alleati) per il controllo della Calabria, in particolare delle città di Reggio Calabria e Villa San Giovanni, quest’ultima fondamentale per il controllo sullo stretto di Messina. La faida si concluse con nessun vinto e vincitore e grazie, in parte, all’intervento dell’allora boss di Cosa Nostra, Totò Riina, il quale vestito da prete facilitò la mediazione tra i due cartelli, che si divisero le province del sud della Calabria per esercitare il loro potere. Per questo e per arricchirsi gli ‘ndranghetisti, quindi, bussarono anche alla porta, o meglio, alla serranda di Tiberio per chiedere il pizzo. Non fu l’unico in città a cui vennero a cercare un “pensierino”, anche a Renato, amico di Tiberio, chiesero il pizzo. Egli a differenza di Bentivoglio decise di accettare, “€100 al mese cosa saranno mai” pensava; ma quei €100, dopo due mesi, diventarono €200, dopo un anno, diventarono €700. Un costo troppo alto da sostenere, così decise di smettere di pagare il pizzo: prima gli spararono alla saracinesca del negozio di tabacchi, poi gli bruciarono l’auto e infine se ne dovette scappare dalla Calabria dopo aver svenduto il tabacchino.
Tiberio continua la sua storia e ci racconta, ribadendo le parole dette in precedenza da Rocco, di quanto questi “uomini d’onore” abbiano paura, molta paura, si nascondono e presi uno ad uno “sono delle pecorelle”. Il commerciante reggino si trovava in un grosso centro commerciale di Reggio insieme alla sua scorta. A un certo punto davanti a sé riconosce un uomo, era il boss, la stessa persona che lo ha minacciato più volte, insieme ad una donna, presumibilmente la sua compagna. “Mi puntò a circa quindici metri; ma arrivato a quattro, cinque metri; abbassò gli occhi, girò la testa per guardare una vetrina; ma quella vetrina lo ha ingannato, essendo una vetrina adibita ad intimo femminile” ci racconta il testimone di giustizia. Tiberio ritorna alla sua storia, a quando Nino, un mafioso locale (il quale abitava nel palazzo di fronte a Bentivoglio), dopo l’inaugurazione del secondo negozio, lo minacciò di bruciare il negozio se non avesse pagato il pizzo. “O ci paghi o non farai più il commerciante” erano le parole che sentiva Tiberio. Questa notizia, andava raccontata a sua moglie, la signora Enza, la quale con tanti sacrifici aveva portato avanti questa attività. Enza, dopo aver ricevuto la notizia, rimane in silenzio per quaranta secondi, ma poi convinta dice al marito di non pagare pizzo, tutti quei sacrifici non potevano essere buttati in questo modo. Però poi il negozio venne bruciato, venne messa una bomba davanti alle serrande, venne distrutto anche il furgone e venne bruciato il negozio nuovamente con un materiale che rese difficili le operazioni di salvataggio dei prodotti. Ma il culmine si raggiunse il 9 febbraio 2011, quando Tiberio, recatosi ai piedi dell’Aspromonte, scese dal suo furgone e venne raggiunto da sei colpi di pistola sparati da una distanza di circa quindici metri. Fortunatamente tre colpi andarono a vuoto, uno lo colpì sulla spalla, un altro sulla gamba e del sesto colpo si persero le tracce. Il sesto colpo venne poi ritrovato da un commissario di polizia: era rimasto bloccato nel marsupio di cuoio che Tiberio portava a tracollo, salvandogli la vita. Quel che avvenne fu un autentico miracolo. Tiberio e Vincenza sono ora costretti a trovare un nuovo locale dove aprire l’attività, visto che quello situato nel loro quartiere stava radicalmente perdendo la clientela. Individuano un bene confiscato e lì riaprono il loro negozio di sanitari, grazie anche all’aiuto di Luigi Ciotti, il quale scrisse la sua firma, per intero, su una colonna del nuovo negozio. Infine Tiberio ci presenta il suo libro “C’era una volta la ‘ndrangheta. Ricordi e desideri di un uomo che l’ha conosciuta”.

Tiberio e Rocco ci hanno concesso anche una brevissima intervista, i quali hanno risposto ha delle domande:
Ha detto il rapporto con la sua famiglia è stato molto importante, è stata una decisione sua e basta o anche di sua moglie? Come l’hanno presa i suoi figli? Che età avevano i suoi figli? (per Rocco, sulla notizia del pizzo)
Il più piccolino aveva 14 anni, la più grande 19 anni. Ha influenzato molto questo fatto, io ho passato molto tempo della mia vita ad insegnare ai miei ragazzi, dopo essere stato costruito io dagli incontri che ho ricevuto. Mio padre è stato il primo ribelle che ho conosciuto, che pur di ribellarsi, ci ha portato a Torino. Importante per me è stato l’incontro con Luigi Ciotti. Abituatevi anche voi ragazzi a fare più fatti e meno parole.”

Dopo aver comunicato a sua moglie del pizzo, se sua moglie avesse detto “si paghiamo il pizzo”, lei come avrebbe reagito? (per Tiberio)
Mi sarei arrabbiato, ci sarei rimasto molto male, perché ero convinto di quello che si doveva fare. Ma nello stesso tempo ero anche convinto che mia moglie mi avesse assecondato, quando gli ho detto “vedi ho intenzione di non pagare”, gliel’ho fatto prima dire a lei. Ci siamo innamorati quando stavamo nei banchi di scuola e ci siamo giurati amore, siamo stati sempre d’accordo, anche molto prima del fatto mafia e quindi ero quasi certo che mi avrebbe detto di non pagare. Mia moglie nella fede ha trovato la forza di proseguire.”

Loro che non si definiscono testimoni di giustizia, ma “testimoni di verità in attesa di giustizia” vanno nelle scuole di tutta Italia a portare speranza, a far capire ai noi giovani che la vita è bella, e che bisogna fare rumore, sì bisogna fare rumore, come hanno fatto Rocco e Tiberio che non hanno ceduto ai mafiosi, che hanno detto “no” e che hanno denunciato rischiando la vita loro e quella dei loro famigliari. Loro che non si definiscono eroi, forse perché sanno che questa dovrebbe essere la normalità. Dove prima nessuno denunciava, ora sono sempre in di più a dire “no”, soprattutto grazie a Rocco e Tiberio. C’è speranza in Calabria, si respira un’aria diversa e quest’aria Rocco e Tiberio la vogliono portare in tutta Italia.

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