Sentiamo spesso parlare di guerra, leggiamo notizie sui giornali e vediamo immagini di combattimenti e distruzioni quando accendiamo la tv. Da un anno a questa parte parliamo spesso della guerra in Ucraina, ma è giusto ricordare e parlare anche di altri conflitti che, purtroppo, si svolgono in altre parti del mondo. Forse perché più lontana da noi, forse perché non sembra che ci possa “toccare” molto, ma della guerra in Sudan sentiamo parlare poco.

In realtà quanto accade in Sudan sta portando alla morte di centinaia di persone e migliaia di feriti, coinvolgendo l’intero paese. Ciò che sta succedendo è più influente e più vicino a noi di quanto si voglia credere, e potrebbe avere diverse conseguenze a livello internazionale.

Cosa sta avvenendo in Sudan?

Lo Stato sta affrontando uno scontro tra due fazioni, guidate una dal presidente del Consiglio Sovrano al-Burhan, sostenuto dall’esercito SAF (Sudanese Armed Force), e l’altra guidata dal vicepresidente del consiglio Dagalo (conosciuto nello stato del Sudan con il nome di Hemedti, ovvero il piccolo Mohamed), sostenuto dai paramilitari delle Rsf (Forza di supporto rapido, Rapid Support Forces).

Il presidente del Consiglio Sovrano al-Burhan

I due nel 2019 avevano collaborato per mettere in atto un colpo di stato contro l’allora presidente e dittatore Omar al-Bashir, dopo un mandato di oltre 30 anni durante il quale era stato accusato di diverse atrocità tra cui il genocidio nella regione del Darfur dove, per motivazioni etniche, furono uccise circa 300 mila persone.

Nacque quindi un governo transitorio che avrebbe dovuto portare a delle elezioni democratiche; la situazione andò però in una diversa direzione e nel 2021 il governo cadde di nuovo con un altro colpo di stato.  Da allora lo stato del Sudan è guidato dall’alleanza militare del Consiglio Sovrano; i due generali di fatto si dividevano il potere, ma l’alleanza è stata in bilico e fragile fino a questo aprile quando Dagalo, capo della Rfs, ha tentato nuovamente un colpo di stato. Alcuni gruppi della Rfs il 15 aprile hanno attaccato sedi militari e luoghi di potere nell’intero paese seguendo un piano meditato, si sospetta, già da alcuni giorni.

Dagalo, capo delle Rfs

Da subito la capitale Khartum è diventata teatro di diversi scontri armati portando alla morte di quasi 500 persone oltre che migliaia di feriti in poco più di una decina di giorni.

Erano già sorte alcune preoccupazioni su una possibile rottura dell’alleanza tra Burhan e Dagalo alla fine dello scorso anno quando i due generali avevano discusso su una possibile integrazione nell’esercito sudanese del corpo armato delle Rsf, che secondo Burhan sarebbe dovuto avvenire in circa due anni, mentre secondo Dagalo molto più lentamente, almeno dieci. Anche se all’apparenza le motivazioni della guerra possono sembrare di natura strettamente politico-militare in realtà, dietro questa guerra ci sono anche la lotta per il controllo delle miniere d’oro e dei giacimenti di petrolio nel paese.

La situazione è grave e preoccupante, tant’è che la Farnesina e numerose altre ambasciate straniere hanno dato l’ordine ai propri concittadini di fare rientro nel proprio paese; sono ad oggi ormai più di 50mila le persone che hanno abbandonato il Sudan.

Diverse sono le città messe a ferro e fuoco, in cui vengono distrutte case, proprietà, mercati, oltre ai luoghi in cui le persone hanno possibilità di ripararsi dal conflitto; lo scorso 29 aprile è stato saccheggiato anche l’ospedale di El Geneina da Medici Senza Frontiere, nello stato del Darfur Occidentale. Il sindacato dei medici sudanesi riporta che “il 70% degli ospedali non è più funzionante”.

Di giorni in giorno le forze paramilitari aumentano la loro avanzata e in poco più di tre settimane, secondo loro dichiarazioni, sono riusciti ad occupare il 90% di Khartum.

Dalla mezzanotte del 25 aprile sono scattate 72 ore di cessate il fuoco per l’apertura di corridori umanitari e per mettere in salvo civili; è la quinta tregua dall’inizio del conflitto, ma in realtà non è stata rispettata poiché le truppe guidate da Dagalo hanno fatto fuoco contro le truppe rivali e i combattimenti sono ripresi. Un’ulteriore tregua è stata proclamata venerdì 28 aprile ma anche questa, come tutte le precedenti, non è stata rispettata.

Alla luce di queste informazioni definirla dunque una guerra civile non è propriamente corretto, si dovrebbe parlare più di uno scontro tra fazioni militari; la popolazione e i civili sono uniti e sono spettatori e vittime allo stesso tempo di ciò che sta accadendo nel loro paese. Già prima del conflitto il Sudan stava affrontando la sua più grande crisi umanitaria: erano 15,8 milioni ovvero un terzo della popolazione, le persone ad aver bisogno di sostegno umanitario; dunque la guerra non farà altro che aggravare questa situazione.

L’ONU ha dichiarato che il conflitto sta riaccendendo anche alcuni scontri etnici e a preoccupare è anche la possibilità che lo scontro possa rompere l’equilibrio dell’intera regione, compresa la situazione al confine con Ciad e Etiopia. Non solo, anche i paesi circostanti di Sud Sudan, Libia e Repubblica Centrafricana stanno affrontando un’instabilità interna; il momento di crisi del Sudan potrebbe quindi espandersi in tutta la regione.

La paura è anche che stati esteri si schierino a favore di una o dell’altra fazione: ad esempio Hemedti ha legami con i militari eritrei e con i mercenari russi del gruppo Wagner; questo porterebbe a maggiore difficoltà nel raggiungimento di una pace. Sicuramente, sospettano gli analisti, più a lungo durerà il conflitto, maggiore è la possibilità che le fazioni reclutino civili in cambio di oro e potere, portando così a una vera e propria guerra civile.

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