Il centenario del Liceo da Vinci è anche una opportunità di incontri di grande interesse con ex alunni che si sono fatti onore in Italia e nel mondo. Uno di questi è senz’altro Massimo Sestini, che ringraziamo per la sua generosa disponibilità e per le splendide immagini che ci ha consentito di pubblicare.

In occasione del centenario del liceo scientifico Leonardo da Vinci, nel dicembre scorso, il Leomagazine ha avuto l’onore di intervistare Massimo Sestini, celebre fotografo ed ex studente della scuola.

Massimo Sestini nasce a Prato e negli anni del liceo si appassiona di fotografia, immortalando concerti rock, che sono il tema della sua prima mostra a Firenze: Un diciassettenne ed il suo obiettivo.

All’inizio degli anni 80 vengono pubblicati i suoi primi scoop tra cui il ritratto dell’ex finanziere Licio Gelli mentre veniva portato in carcere, Carlo d’Inghilterra fotografato a Recanati mentre dipinge un acquerello e le immagini dell’attentato terroristico al Treno 904 in una galleria sotto l’Appennino: scatti che gli fanno ottenere la sua prima copertina su Stern. Negli anni seguenti fonda la Massimo Sestini News Picture dove collabora con altri fotografi.

Sestini ha raccontato e continua a raccontare i più grandi eventi di cronaca, costume, politica e società.

Documenta, nel 2014, l’operazione di salvataggio Mare nostrum al largo delle coste libiche; la celebre immagine, che nel 2015 ha vinto un World Press Photo nella categoria notizie generali, è esposta nell’atrio del liceo scientifico da Vinci. Liceo che ha infatti frequentato e che la prima settimana del Dicembre 2023 festeggia i suoi cento anni di grande storia di cui Massimo Sestini ha fatto parte. 

Parliamo un po’ del suo e nostro liceo, il Leo: c’era qualche materia che le piaceva di più, qualche professore che non le piaceva ? Un suo ricordo sull’esame di maturità dato che molti di noi studenti dovranno affrontarlo tra qualche mese?

Sono rimasto molto legato al mio liceo anche senza esserci mai più stato dopo l’esame di maturità; quando sono uscito dall’esame di maturità ho spostato il mio studio nell’ufficio dei miei in via Giovanni de’ Marignolli 500 metri più in giù rispetto al Liceo. Ad oggi ho vagato il mondo rimanendo sempre legato a Firenze, in particolare per l’affetto per la mia scuola. Ho scoperto la fotografia proprio negli anni del liceo perché ho cominciato a fare le fotografie di classe per gli studenti. Feci la mia prima mostra in quarta liceo in Piazza Dalmazia all’SMS di Rifredi e consisteva in una ventina di fotografie di cantanti rock. L’attaccamento al mio liceo viene da questo ma anche e soprattutto da Luciano Ricci, che era un custode della nostra epoca e che faceva un corso di fotografia in una piccola camera oscura nella scuola di pomeriggio. Ho imparato a stampare grazie a lui, tant’è vero che a casa mia preclusi uno dei due bagni e lo trasformai in una camera oscura. Dopo il liceo andai all’università ma mentre ero iscritto a scienze politiche trovai posto alla Nazione perché cercavano uno stampatore; dovevo stampare le fotografie di tutti i fotografi di cronaca di tutta la Toscana. Decisi subito che, dovendo lavorare 12 ore al giorno per 400.000 lire, volevo fare il fotografo e presi la decisione di non fare neppure il primo esame di facoltà e rinunciai a facoltà iniziata per diventare fotografo. L’esame di maturità è stata la peggior esperienza della mia vita perché facevo anche skateboard e facevo parte della Nazionale Italiana: ero specializzato nel freestyle. L’allenatore che si occupava delle Nazionali chiese alla scuola se potevo allenarmi in palestra in orari che non erano quelli della scuola e la scuola lo consentì. I campionati italiani, che io speravo di vincere, erano alla vigilia dell’esame di maturità. Per l’esame di maturità mi sono arrangiato alla meglio possibile promettendo anche all’allora preside che se mi avessero ammesso all’esame, nonostante avessi i campionati italiani quattro giorni prima, appena finito avrei smesso di andare in skate e soprattutto mi sarei rinchiuso in casa di mia nonna per quattro giorni a studiare per l’esame.

La fotografia spesso fa parte dell’informazione; oggi dovremmo essere in teoria informatissimi, ma in realtà sappiamo che non è così, sia perché quantità non significa qualità sia perché la disinformazione è sempre dietro l’angolo. Quale pensa debba essere il ruolo della fotografia in tutto ciò?

Quando ho iniziato a fare il fotografo le notizie si potevano ascoltare in televisione oppure leggere su carta, ma le fotografie erano pubblicate solo sul giornale quotidiano. Dopo l’era dell’homo sapiens, è nata l’era dell’homo fotographicus, da quando hanno inventato i cellulari; sono delle macchine potentissime che anche io, in alcuni casi, uso a livello professionale e che qualche volta mi permettono di fare scatti che non potrei fare con una telecamera molto costosa. È successo che tutti quanti ora hanno uno smartphone e tutti i giovani oggi nascono con il telefonino in mano e i bambini iniziano a mandare i messaggi a giocare e soprattutto fin da piccoli iniziano a fare foto; i ragazzi di oggi sono fotografi autodidatti, sanno fare fotografia anche senza averla mai studiata senza aver mai studiata. Siamo circondati da fotografie, anche sui social, e non si vede più la differenza, come un tempo, tra una fatta da un fotografo professionista o una fatta da una persona comune. Anche i giornali pubblicano fotografie di fotografi non riconosciuti, perchè ormai non importa più a nessuno chi ha fatto la foto. L’era dell’homo fopographicus ha fatto sì che tutto tutto è ripreso in qualunque momento; per esempio, se quest’anno fosse caduta la Torre di Pisa, si potrebbero trovare le foto anche online mentre alla mia epoca sarebbe stato improbabile trovarne una foto perchè solo fotografi si sarebbero trovati lì al posto giusto. La fotografia è il mezzo di comunicazione più potente perché una foto non ha lingua e basta vederla per capirla; la “lettura” della fotografia è immediata, se abbastanza potente riesce anche a comunicare l’intera notizia. É un mezzo di informazione e comunicazione importantissimo, ma che è ormai talmente diffuso che ha perso gran parte del suo valore. I professionisti che sopravvivono sono quelli che cercano di realizzare una fotografia che è semplicemente quello che vediamo ma che cambia la prospettiva dell’osservatore. Infatti, utilizzo spesso la fotografia aerea, soprattutto perchè guardando dall’alto si notano aspetti che normalmente non si vedrebbero.

Molte delle fotografie aeree che ha realizzato sono molto “dirette”, e tale è il loro impatto sul pubblico è notevole; si è mai trovato di fronte al dilemma se consegnare all’opinione pubblica o meno alcune immagini molto “forti”, come scene di violenza o di morte; come si è regolato?

Credo di avere una buona autostima di me stesso e soprattutto una consapevolezza del mio punto di rottura tra il dover dare una notizia e il doversi fermare per un motivo etico. Fare il fotografo non è proprio come fare il giornalista. Cioè un giornalista può raccontare una notizia anche se non è presente; in guerra un inviato può non andare in trincea, può rimanere un po’ dietro, in retrovia, e scrivere comunque il suo articolo. Un fotografo non può fare foto della trincea rimanendo in albergo. La fotografia è un click che immortala un istante e che, per quando è fatta la foto, è già passato. Mi sono accorto da giovane che non avevo una velocità reattiva sufficiente per poter decidere di non fare una foto sul momento: ho imparato che prima bisogna scattarla e poi, dopo averla fatta, decidere se è giusto o meno distribuirla. Mi è successo diverse volte di scattare fotografie estremamente importanti a livello di notizia, ma che non ho mai diffuso. In un Gran Premio di formula uno ci fu un incidente in cui era coinvolto Ayrton Senna; avevo inviato un fotografo che lavorava con me all’ospedale, e la sera mi telefonò per dirmi di aver conosciuto un infermiere che aveva un rullino di foto fatte al cadavere, con un mazzo di rose gialle e verdi addosso, dentro un lettino all’obitorio. Costarono un milione e mezzo di lire e appena tornati a Firenze le sviluppammo; tra queste c’era una foto inguardabile, impietosa e impubblicabile. Telefonai al direttore di Panorama e gli dissi che avevo una foto che non volevo vendegli, la rivista avrebbe dovuto la notizia di essere entrata in possesso di immagini macabre che non era giusto presentare all’opinione pubblica e che quindi ha preferito non pubblicare. Il direttore poi mi richiamò e mi disse di scrivere io stesso l’editoriale, raccontando ai lettori perché non avrebbero visto le foto. Dopo la pubblicazione del mio pezzo, 10.000 mail di ringraziamento a Panorama per aver fatto la cosa giusta.

È successa la stessa cosa con l’incidente in cui è morta la principessa Diana. Quando successe l’incidente tutti i fotografi si precipitarono nel tunnel e cominciarono a fare foto. Anche se tutti i fotografi vennero arrestati dalla polizia che confiscò tutto il materiale scattato all’istante, noi avevamo ricevuto le foto dell’incidente dove si vedeva la macchina schiantata, l’ambulanza con i medici e i due corpi. Capii che anche se volevo l’esclusiva mondiale bastavano le foto scattate alla macchina da lontano, senza che si vedesse niente di macabro.

Impressionante … C’è una foto o una serie di cui è particolarmente fiero?

Bisogna capire che a volte è necessario avere una regola anche se nel caso di noi fotografi può essere presa solo dopo lo scatto. La foto di cui sono più fiero però non ha vinto alcun premio e non l’ho fatta io, ma ha salvato la vita a due persone. Tanti anni fa furono arrestati due nostri connazionali, due giovani ventenni che erano stati fermati di ritorno dalle Maldive perchè avevano delle foglie di marijuana, rischiavano l’ergastolo per quello. Mi dissero di andare a fotografare di nascosto i due ragazzi che ora si trovavano in una prigione a cielo aperto. Quindi appena arrivato mi misi a fotografare tutti quelli che vedevo e appena tornato sviluppai il rullino: nelle foto che avevo scattato erano presenti solo persone di colore e i nostri connazionali non erano tra loro. Il giorno dopo giorno mi chiamò un mio collaboratore dicendomi di partire il prima possibile perché la polizia mi stava cercando, pensavano che stessi cercando di far evadere i due ragazzi. Il primo volo per tornare in italia era nel pomeriggio del giorno dopo, quindi decisi che valeva provarci un’ultima volta prima di partire. Alle tre di notte di diressi verso la piccola cittadina portuale che si trovava sulla stessa isola del carcere in cui abitavano solo quelli che ci lavoravano, con le loro famiglie. Scoprii che i due ragazzi non erano a cielo aperto ma erano tenuti in due celle di isolamento e riuscii a convincere un secondino del carcere a fargli delle foto. Quando mi rese la fotocamera c’erano dodici foto scattate ma che non potevo controllare finché non le avessi sviluppate. Tornai in Italia clandestinamente imbarcandomi su una nave, con 500 turisti italiani, e le foto dei due ragazzi vennero ripresi da tutti i quotidiani grazie alle foto scattate dal secondino, che vennero diffuse da tutti i quotidiani italiani, furono in grado di tornare in italia.

Crede nella fotografia come forma d’arte?

È assolutamente una forma d’arte. Nell’antichità e nel passato le persone si facevano fare un dipinto per far vedere il loro titolo e dimostrare di essere nobili. Oggi invece c’è la fotografia. La fotografia è giornalismo ed è quindi una forma d’arte che obbliga a vedere il mondo da una prospettiva diversa. Questo vale per tutto e anche il fatto che una fotografia è come una storia, tant’è che poi la foto più bella per me è quella che ha fatto un’altro. 

Insieme alla dirigente scolastica ho deciso anche di lasciare un segno nella scuola con la fotografia che è appesa nell’atrio del liceo; ho deciso di appenderla al soffitto per costringerci a guardarla nella stesso modo dei migranti che guardavano me mentre facevo loro la foto.

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