Uno dei problemi che affligge il nostro pianeta è l’inquinamento, uno dei più gravi è quello causato da plastica e derivati del petrolio. Un sacchetto o una bottiglia di plastica si “biodegradano” in centinaia o addirittura migliaia di anni. Questo inquinamento è possibile combatterlo, l’aiuto ci arriva dalla natura stessa. Esiste infatti un particolare tipo di batteri (della famiglia Cupriavidus metallidurans) soprannominati “mangia-plastica”. Sono stati scoperti dal microbiologo molecolare della Michigan State University, Kazem Kashefi e dal docente di arti elettroniche, Adam Brown. Questi batteri riescono a prosperare in ambienti ad alta concentrazione di metalli pesanti, anche in presenza di elevate quantità di cloruro aurico, un sale particolarmente tossico comunemente usato in metallurgia e in farmacia.

I due ricercatori hanno alimentato i batteri con cloruro aureo e nel giro di una settimana si son ritrovati con una piccola quantità di pepite d’oro, frutto della “digestione” del sale da parte dei microrganismi.

Niente trucchi, nulla di particolarmente strano dal punto di vista scientifico, poiché non è altro che una semplice reazione chimica. L’oro ottenuto grazie i batteri è costosissimo al punto da rendere proibitiva l’industrializzazione del processo. Per questo motivo i due ricercatori hanno trasformato la loro scoperta in un opera di bioarte che produce oro (24 karati) davanti agli occhi attoniti degli spettatori.

Nell’ambito del riciclo della plastica è presente anche un organismo un po’ meno “prezioso”,ovvero, la Galleria Mellonella, per gli amici la larva della tarma della cera. La passione per la plastica – in particolare per il polietilene – di questo parassita degli alveari è stata scoperta quasi per caso dalla biologa e apicoltrice italiana, Federica Bertoccini, dell’ istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria(Csic). Mentre stava rimuovendo i parassiti dalle sue arnie, li aveva inseriti temporaneamente in una busta di plastica, che in poco tempo si è riempita di buchi. La ricercatrice si è così messa in contatto con Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’Università di Cambrige, programmando un esperimento. Sono state poste un centinaio di larve vicino a una busta di plastica, in 40 minuti sono comparsi i primi buchi. Dopo 12 ore la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi, un tasso di degradazione giudicato estremamente rapido dai ricercatori rispetto a quello osservato in altri microrganismi che nell’arco di una giornata riescono a degradare 0,13 milligrammi.

Se alla base di questo processo chimico ci fosse un unico enzima, la sua riproduzione su larga scala utilizzando le biotecnologie sarebbe possibile- ha osservato Bombelli -la scoperta potrebbe essere uno strumento importante per liberare acque e suoli dalla grandissima quantità di buste di plastica finora accumulata”.

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