CLAUDIO MONTEVERDI: QUAL E’ OGGI IL VALORE E IL SIGNIFICATO DELLA SUA OPERA? ARCHEOLOGIA – per quanto di ottima lega – O COME DICEVA TUCIDIDE, POSSESSO PER L’ETERNITA’?

 

Pierangelo Conte, coordinatore artistico dell’opera di Firenze: “La grande attualità di Monteverdi risiede nella sua attitudine di sperimentatore al servizio del pensiero drammaturgico nella sua totalità. Molto di quello che siamo noi oggi lo dobbiamo certamente a lui.”

Un giudizio sicuramente condivisibile, quello del maestro Conte. In occasione dell’ anniversario della nascita del Michelangelo della musica,  abbiamo rivolto la domanda sovrascritta ad alcuni autorevoli personaggi del mondo della musica:oltre a Conte,  il musicologo Giovanni Vitali, responsabile della promozione artistica dell’Opera di Firenze e direttore artistico del Festival solo BelcantoMaurizio Colasanti, direttore d’orchestra di fama internazionale e il giovane e straordinario controtenore Raffaele Pè, uno dei migliori interpreti della musica barocca (e non solo) che è stato recentemente applaudito a Firenze nella Didone abbandonata di  Leo Vinci. A loro abbiamo chiesto una valutazione sull’importanza della figura e dell’opera monteverdiana e li ringraziamo della cortesissima disponibilità .

Secondo Giovanni Vitali, l’opera di Claudio Monteverdi, presa per intero nel  suo corpus, dai madrigali ai lavori in genere rappresentativo, senza escludere la musica sacra,  è sicuramente  “possesso per l’eternità:  “Mi ha sempre colpito come i compositori di varie epoche, nel momento in cui hanno voluto creare qualcosa di inaudito, intenso nel significato originale di mai udito, hanno guardato spesso a Monteverdi, alla sua capacità di potenziare il valore della parola attraverso la musica, come pochi altri hanno saputo fare nel corso dei secoli. Penso, ad esempio, a ciò che concepì nel 1813 Gioachino Rossini quando, per Ferrara, decise di dare al suo Tancredi un finale tragico che sostituisse, in maniera drammaturgicamente più convincente, la giubilante conclusione veneziana. La nuda essenzialità della parola declamata, l’economia dei mezzi strumentali, la rarefatta, toccante espressività richiamano il momento in cui Tancredi si congeda dall’amata Clorinda e dalla vita nel Combattimento monteverdiano”, dichiara Vitali e prosegue: “Un ritorno all’antico che rappresenta un formidabile progresso. Oltre il Belcanto, oltre il Romanticismo, verso il Novecento. Ho citato Verdi (“Torniamo all’antico e sarà un progresso”). Un suo momento “monteverdiano”: lo sconvolgente finale del Te Deum, quando nel finale la tromba introduce il grido del soprano solista, “In te Domine, in te speravi”, poi ripreso dal coro e dall’orchestra, prima che i contrabbassi spalanchino davanti all’essere umano l’abisso del dubbio della vita che verrà.” Per il musicologo anche Puccini, nella Turandot, conclude con un momento “monteverdiano”, affidando al declamato di Timur la trenodia funebre della piccola Liù fino a quella nota acutissima dell’ottavino che consegna per sempre alla immobilità siderale il rapporto tra musica e parola: e così la storia dell’opera nel senso classico del genere,  apertasi tre secoli prima con L’Orfeo, si conclude con un altro momento “monteverdiano”

Secondo Maurizio Colasanti, l’apporto e l’eredità che Monteverdi ha dato alla nostra cultura  è così vasto, che spesso causa imbarazzo e spaesamento “come quando ti trovi di fronte ad una montagna e non riesci a capirne i confini ma sei soggiogato dalla sua imponenza” La scarsa lungimiranza poi e l’ignoranza di chi dovrebbe alimentare gli studi, e favorire la promozione e la divulgazione delle sue opere, ha fatto si che questo anniversario passasse (fatte salve alcune lodevoli iniziative come quelle della Fenice e quella cremonese) sotto un silenzio decisamente disonorevole per tutto il mondo delle fondazioni lirico sinfoniche, dei conservatori di musica, del mondo accademico, fatte salve le iniziative che non conosciamo. “ Opere come L’incoronazione di Poppea, il Ritorno di Ulisse in patria, l’Orfeo, Proserpina, dovrebbero essere costantemente presenti sulle scene italiane, in quanto titoli imprescindibili del nostro teatro musicale, e invece non è così. Secondo Colasanti, altrettanto si può dire della produzione polifonica di Monteverdi, dai madrigali alla polifonia sacra. Secondo l’illustre maestro: “Siamo di fronte ad un gigante che è riuscito a declinare verso nuove forme il senso spaziale del significato musicale. L’arte di Monteverdi sa di libertà, una libertà continuamente rinnovata attraverso il rigore e l’articolazione formale, ed alimentata da una profondità che ancora attende di essere scandagliata.”

Infine  Raffaele Pè,  che ha il grande cremonese nel suo repertorio : “La musica di Monteverdi significa molto nel mio percorso di interprete e credo di condividere questo con molti colleghi. Il mio affetto è particolarmente rivolto alla favola di Orfeo, in cui curiosamente l’iconico ruolo di Musica fu da lui affidato a una voce maschile – a questo caso ho dedicato il mio primo lavoro discografico. Sembrerà strano quanto scrivo, visto l’uso comune oggi di mettere in scena questo ruolo con una voce femminile e di farla coincidere spesso per ragioni di praticità con il ruolo di Euridice, ma la verità è che Monteverdi aveva accuratamente destinato questa a parte al cantante fiorentino Gualberto Magli le cui doti vocali e di arpista erano all’epoca molto ammirate tra le corti italiane.
Non credo ci sia nessun maschilismo da parte di Monteverdi in questa scelta, anzi ciò ci permette forse di capire ancora meglio che tipo di compositore fosse e quale straordinaria cura per i suoni infondesse nei suoi lavori. Sempre nell’Orfeo (unica opera teatrale da lui pubblicata in vita) si preoccupa di elencare con minuzia nel frontespizio l’organico orchestrale richiesto per l’esecuzione, una vera rarità per l’epoca.
È noto che Monteverdi impiegasse molto tempo per concludere un brano e, come ci ricorda Domenico De’ Paoli nella sua bellissima e ancora assai attuale biografia, amava lavorare nelle calma e senza fretta dedicando in particolare le ore pomeridiane alla sua arte.
Penso a Monteverdi più come un terapeuta che un musicista nella moderna prospettiva che ora abbiamo nei confronti di questa attività. A parte i reali interessi che Monteverdi mostrò nei confronti della medicina e dell’alchimia e pure condivisi con l’amico e mecenate veneziano Girolamo Mocenigo, la sua musica è straordinariamente straniante, e sembra spesso disattendere le attese di un ascoltatore alla semplice ricerca di un intrattenimento. Penso alla faticosa poetica ritmica e armonica dell’elegia per la morte dell’amata Caterina Martinelli, all’aspra scrittura concitata del Combattimento di Tancredi e Clorinda e pure presente nei lavori teatrali e nella maggior parte dei suoi madrigali, alla difficile e cupa melodia per la parte di Penelope ne  Il Ritorno di Ulisse in Patria o ancora alla misterioso contrappunto dei salmi del Vespro della Beata Vergine, Dixit Dominus o Laudate pueri.
Non sento appagamento in questa musica, ma forse qualcosa di più grande e universale, qualcosa che lenisce profondamente, in sintonia col respiro di ogni individuo. In questo enigma risiede forse l’immortalità della sua figura che spinge a interrogarsi ancora una volta sulla sua statura musicale, tanto quanto sul suo – come il nostro – irripetibile percorso umano.”

E il quadro che emerge  grazie alle affettuose parole di questi prestigiosi esperti è veramente quello di un artista che non solo è possesso per l’Eternità, ma che come tutti i sommi è eternamente giovane.

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