Una eccellenza italiana e toscana. Leonardo Gori, classe 1957,  è farmacista per tradizione familiare e scrittore per vocazione. Il suo esordio avviene con Nero di Maggio  (2000) con cui nasce il suo personaggio più celebre e longevo,  l’ufficiale dei carabinieri Bruno Arcieri. Un personaggio spigoloso e tormentato, idealista suo malgrado e nonostante i tempi non facili che attraversa: gli anni trenta, la guerra, il dopoguerra sino alla fine degli anni sessanta e all’inizio del periodo degli anni di piombo e delle stragi: Arcieri “ficca il naso” anche nella vicenda di piazza Fontana con il geniale e mozzafiato Non è tempo di morire  (2016). Attualmente lo scrittore ha in preparazione un nuovo libro con Arcieri, ma la sua produzione comprende anche il romanzo storico con personaggi come Pietro Leopoldo e Machiavelli. Dotato di una scrittura asciutta, limpida e coinvolgente, Gori sa mescolare una grande capacità inventiva con personaggi che non si dimenticano, oltre a una straordinaria sensibilità per la storia e le sue pieghe più riposte. Autore di grande successo, ha vinto il premio Scerbanenco e il premio Fedeli.  Gli siamo molto grati di offrire questo suo ritratto ai nostri lettori.

DDN

Da farmacista a scrittore: come è sbocciata la passione per la scrittura?

La passione per la scrittura preesiste a tutto, da molto tempo prima di qualsiasi impegno universitario: sentivo la necessità di scrivere. All’inizio non mi azzardavo ad inventare storie, ho cominciato tardi a farlo;  prima cercavo di smontare i giocattoli degli altri, di fare critica soprattutto di fumetti e inoltre volevo vedere come funzionavano i meccanismi narrativi. In seguito ho provato a fare il salto e vedere cosa sarebbe successo provando a raccontare una mia vicenda e così è nata l’attuale attività.

Lei ha creato vari personaggi: uno, il colonnello Arcieri, è protagonista di una serie, altri invece  vivono lo spazio di un libro: tra di essi, il granduca Pietro Leopoldo. Come nascono i suoi personaggi e che rapporto  ha con essi?

Io sono uno scrittore che si basa sulle storie più che sul personaggio o almeno all’inizio era così; facendo il caso del granduca Pietro Leopoldo, egli era solo accessorio ad una storia che aveva come protagonista una strada: era lei, quella che si dirigeva verso il ducato di Modena,[1] al centro della mia narrazione, che poi ha portato a far emergere il sovrano lorenese. Io non nego l’importanza dei personaggi, che anzi a mio parere sono centrali all’interno di un romanzo, sono il tramite con cui si cerca di far passare le emozioni, che sono la cosa più importante che si deve cercar di comunicare al lettore. Però, lo ripeto, in tutti i miei romanzi e anche nella serie di Bruno Arcieri  sono state le storie a crearli. Arcieri è nato perché c’era una vicenda, la visita di Hitler a Firenze del 9 maggio 1938, che era il motivo per cui scrissi il primo romanzo di questa serie.[2] L’ufficiale dei carabinieri  era un mezzo, poiché avevo bisogno di  qualcuno che affiancasse un personaggio, il gerarca senza nome, attraverso la narrazione. Poi negli anni c’è stato un cambiamento: romanzo dopo romanzo, Arcieri si è imposto come figura centrale fino al punto di dettare lui il tema e carattere di ogni libro. Questo avviene specialmente negli ultimi della serie.

A proposito di personaggi: proprio come Sir Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes, anche lei aveva “soppresso” Arcieri per poi farlo risorgere.  Ha voluto seguire il celebre modello inglese oppure … Perché?

Doyle aveva i suoi motivi, io posso parlare dei miei, stavo attraversando una mia personale crisi sotto il punto di vista della scrittura e avevo deciso di abbandonare questa figura, però per fortuna avevo lasciato aperto uno spiraglio:il romanzo in cui dicevo addio a Bruno Arcieri lasciava un’apertura finale, una cosa “sospesa” in tutti i sensi, anche letterale. Poi ho deciso: in parte mi sono lasciato convincere e sono grato a chi l’ha fatto, perché quel personaggio aveva diritto ad una prosecuzione. Questo è stato fondamentale per la mia carriera di scrittore, perché con Il ritorno del colonnello Arcieri, ambientato nel 1968, io ho scoperto una nuova figura e l’ho portata, credo, alla piena maturità.

Ha qualche modello? Chi sono i suoi autori preferiti?

Ho iniziato avendo come riferimento i grandi autori di thriller e spionaggio anglosassoni, principalmente due: uno è sicuramente  il primo Ken Follett, quello delle spies storys come Il codice Rebecca o La cruna dell’ago; capolavori di narrazione in cui si fondevano il romanzo, la Storia (con la S maiuscola), di solito Seconda Guerra Mondiale  – cornice che io, tra l’altro, prediligo –  ed infine intreccio e trama complessa con una struttura profonda soddisfacente. L’altro autore, che tende al versante del romanziere puro anche se frequenta il genere, è John Le Carré, inventore del personaggio di Smiley, molto fortunato anche cinematograficamente.  Il personaggio seriale di Smiley, con cui Le Carrè si differenzia da Follett che non ne aveva uno, ci mostra la maturazione, il cambiamento e il decadimento di questo  agente segreto britannico. Di Le Carré amo moltissimo La Talpa, che a volte paragono al ciclo arturiano. Ora però ho fatto riferimento solo a due autori anglosassoni di genere, non a scrittori senza vincoli di appartenenza ad una forma di sottoletteratura, che sono tanti e quelli che per me hanno voluto dire molto sono, in Italia, Giorgio Bassani, Mario Tobino e tantissimi altri.

Che rapporto ha con il suo pubblico?  Ha un occhio di riguardo per il pubblico giovanile?

Temo che il mio pubblico non sia squisitamente giovanile, ci si fa un’idea del proprio pubblico alle presentazioni. Io non penso a un pubblico in particolare: se i miei lettori sono in maggioranza persone che hanno un’età paragonabile alla mia è perché forse  colgono qualcosa; frequento molto il tema della memoria, che solletica persone di certe fasce di età.  Però non penso e non privilegio alcun tipo di lettore,  racconto una storia utilizzando dei personaggi e vorrei dire Storia con la s maiuscola ma anche Personaggi con la p maiuscola, sono loro che comandano: non faccio nessuna concessione né a me, né al presunto lettore.

Nei suoi romanzi c’è sempre un occhio particolare per la storia, anche nei “gialli”. Qual è nei suoi libri il rapporto tra storia e fiction?

Utilizzo la Storia come tema portante di ogni romanzo, che sia con Bruno Arcieri o Niccolò Machiavelli o Pietro Leopoldo.  La storia e le sue vicende sono cuore vivo e pulsante, danno addirittura, molto spesso, la ragion d’essere alla narrazione: vedi il 9 maggio 1938.  Sono cose per me fondamentali; la storia non la vedo come un fondale, non come uno sfondo, ma come un personaggio,  quello principale insieme alla città e alle figure in carne ed ossa. Io non amo le ucronie, come cosa sarebbe successo se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale o cose del genere, non mi piace raccontare storie in cui si fa violenza alla Storia: allora io utilizzo le sue pieghe, cioè  cerco quei momenti, quei giorni oscuri di cui non abbiamo documentazione e  in cui potrebbero essere successe delle cose e  mi invento ciò che sarebbe potuto accadere; questo è più facile quando affronto vicende lontane nel tempo, mentre è un po’ più difficile nel Novecento anche se si trova comunque il modo di creare un plausibile possibile.

 

[1] I delitti del  mondo nuovo, Bresso, Hobby & Work, 2002.

[2] Nero di maggio,                     “           “            “        2000.

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