La Russia è stata ritenuta colpevole di aver attuato un sistema di “doping di stato” che ha coinvolto più di mille atleti tra il 2012 e il 2015 e, successivamente tra il 2016 e il 2018, di aver violato e nascosto i dati all’interno del sistema informatico del laboratorio di Mosca.

La sistematicità del doping nello sport russo trova molte tracce anche negli anni precedenti; già nel 1983, come evidenziato nel New York Times in una sua inchiesta, le agenzie sportive della confederazione russa preparavano un vasto programma di doping in vista delle Olimpiadi di Los Angeles dell’anno successivo, alle quali, però, l’allora URSS non partecipò per ragioni politiche.

Questa inchiesta si basa sulla testimonianza di Grigory Vorobiev, un ex medico sportivo russo di quei tempi, il quale raccontava di come gli atleti dell’Unione Sovietica, per migliorare le proprie prestazioni sportive, facessero uso sistematico di sostanze dopanti, il tutto coordinato e diretto da Sergey Portugalov all’epoca importante medico sportivo dell’Unione Sovietica.

Purtroppo, come disse Vorobiev, la cultura della vittoria a ogni costo sopravvisse alla caduta dell’URSS , contravvenendo a quello su cui si fonda il puro ed originario spirito Olimpico.

Ad avvalorarne la tesi ci fu l’intervista della rete televisiva tedesca ARD nel dicembre del 2014 ai coniugi Yuliya e Vitaly Stepanov, due atleti russi, che rivelarono come fossero state offerte loro sostanze dopanti in cambio di una percentuale sui guadagni che avrebbero ottenuto sulle loro vittorie; il funzionario più importante dietro tale proposta era proprio Sergey Portugalov.

Questo servizio della ARD fu il prologo dell’indagine della WADA (Agenzia Mondiale Antidoping) che portò alla squalifica dalle competizioni internazionali  di numerosi atleti russi.

La scoperta della Wada del 2015 fu il più grande scandalo dello sport degli Anni Duemila, una truffa organizzata e strutturata nei minimi dettagli, con il coinvolgimento di governo e servizi segreti; nella periferia di Mosca, all’interno di un laboratorio venivano alterati i valori degli atleti, distruggendo i campioni positivi.

Il TAS, Tribunale arbitrale dello sport, ha dimezzato la pena inflitta alla Russia, rendendola valida fino al 16 dicembre 2022, invece dei quattro anni imposti dalla WADA.

Nonostante la riduzione della pena, la Russia non parteciperà comunque ai Giochi Olimpici di Tokyo 2021, posticipati di un anno per il coronavirus e nemmeno all’edizione invernale di Pechino 2022.

Gli atleti che saranno in grado di provare di non essere coinvolti in vicende legate al doping, potranno competere alle Olimpiadi, però non potranno esibire la bandiera Russa, né ascoltare l’inno del loro paese, e parteciperanno sotto l’effige della bandiera del CIO, il comitato olimpico internazionale.

Il nome Russia potrà apparire soltanto sulle divise degli atleti, ma dovrà essere accompagnato dalla scritta “neutral athlete”; la bandiera sarà bandita dagli stadi, dai villaggi e dalle premiazioni, ma i propri colori potranno apparire sulle divise.

Un boccone amaro da ingoiare per qualsiasi atleta che creda nella Nazione per cui gareggi, che creda nei valori della sua terra, per qualsiasi atleta che si sia sacrificato per anni in duri allenamenti, nella speranza di poter rappresentare il proprio Paese e chissà… forse sognare di ascoltare il proprio inno risuonare dopo la vittoria.

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