Può capitare a tutti di sentirsi a volte soli, incompresi, aggrediti dagli altri, in vena di mettere in mostra il liberatorio slogan “ODIO TUTTI” su ogni accessorio immaginabile; oppure si preferisce lamentarsi e fare le vittime crogiolandoci per un po’. Che bello, allora, sprofondarsi nell’auto-compatimento e dimenticarsi il mondo al di fuori del nostro interiore! Siamo tutti un po’ “hikikomori” a volte, ma sappiamo cosa vuol dire esserlo in continuazione, starsene sempre segregati in camera uscendone al limite quando natura chiama? Con atteggiamento di chi la sa lunga si potrebbe rispondere: “certo, con la chiusura tutti noi, giovani soprattutto, abbiamo risentito dell’isolamento”. Bisogna però saper distinguere il caso in cui si tratti di un’eccezione e quando invece è un’assuefazione, un’abitudine, un rifugio fisso. È necessario cioè documentarsi.

Innanzitutto, chi sono gli hikikomori e da dove viene il termine tanto astruso? “Hikikomori” dal giapponese significa “stare in disparte, isolarsi” e si indica con ciò una “comunità” generalmente di giovani, in particolare maschi, tra i 14 e i 30 anni che si emarginano dalla realtà quotidiana per reimpostarne un’altra, tutta loro. Questo avviene per grande sensibilità, problemi in famiglia o tra coetanei, intolleranza insomma verso la società competitiva e opprimente, con i suoi ritmi e aspettative. “Essi scelgono di chiudersi nella propria stanza, non necessariamente tuffandosi nel mondo digitale” spiega lo psicologo e fondatore dell’Associazione Hikikomori Italia Marco Crepaldi “l’attaccamento a dispositivi tecnologici, se c’è, non causa ma deriva da questo disagio, perché rimane l’unico mezzo col quale si evade dalla limitata realtà di una camera.”

Con la pandemia si sono create in alcuni soggetti delle tendenze ad atteggiamenti di questo tipo, ma chi era già da prima hikikomori non ha sentito differenze, per non dire che si è sentito più a suo agio perché la sua condizione di isolamento era spalmata su tutta la società. Con la riapertura la situazione è peggiorata per questi individui che hanno così perso la “scusa” per rimanere a casa e non trovano giustificazioni per non uscire.

In Italia si stima, sebbene per quanto ci è dato di sapere, che ci siano 100 mila casi, mentre in Giappone, dove il fenomeno ha avuto origine negli anni Ottanta, ce ne sono attualmente più di un milione. Esso scaturisce dalla loro condizione, purtroppo sempre più condivisa, depressione, ansia, ludopatia o altre forme di dipendenza.

Non è un caso che nascano dalla situazione di isolamento delle dipendenze, ma qui in una panoramica più ampia, che comprende anche i“non hikikomori”. Queste fanno appunto dimenticare l’altro perché ci dominano e noi sentiamo l’impulso, il bisogno impellente di fare quel qualcosa di cui non si può fare a meno. Si creano perciò individui vulnerabili, certamente non autosufficienti, che hanno bisogno di una persona “sana” che ci conviva, per le ormai poche attività vitali non coordinate da un’intelligenza artificiale.

Isolarsi ci spoglia del confronto con gli altri, tanto importante per non perdere il collegamento con la realtà, ci aliena e atrofizza la nostra facoltà di empatia. Può sembrare un elenco di conseguenze dell’isolamento poco minacciose, quelle che spesso si rinfacciano di continuo, anche perché stando soli si ha l’utile immediato: ci si può dedicare alla nostra passione, per quanto tempo si vuole. Il problema è però che si crea una “pseudo-società” di persone scollegate l’una dall’altra, deboli, e quindi facili da “tenere buoni”. Se vediamo in questa prospettiva il problema di emarginarsi e dedicarsi a una restrittiva lista di cose, gli hikomori non sono più casi “strani” ma ben più vicini di quanto crediamo. Gli antidoti? In Giappone ci sono volontari, spesso ragazze, disposti ad aspettare ore, anche giorni, che il giovane si apra a un dialogo, o “estrattor” di hikikomori, persone che con la forza impongono ai ragazzi di socializzare.

In Italia si lavora sull’intervento di psicologi che, andando a casa dell’interessato/a, prestano aiuto e assistenza. Non ci si deve quindi

rassegnare perché se l’intervento avviene con una buona tempistica e si dà agli hikikomori l’accesso a quanti più contatti possibile, uscirne è realizzabile (come sottolinea il succitato Marco Crepaldi).

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