Sono passati già 11 anni da quel terribile 11 marzo, quando nel nord est del Giappone, al largo delle coste del distretto di Fukushima, un violentissimo terremoto classificato di magnitudo 9 si abbatté con inaudita potenza, coinvolgendo anche la omonima centrale nucleare. Il terremoto fu causato da un forte sollevamento di una parte del fondale che a sua volta provocò l’innalzamento di tutta la massa d’acqua sovrastante, creando uno tsunami, ossia un maremoto, con onde alte circa 14 metri. Furono immediatamente attivate tutte le procedure di emergenza allo scopo di evitare il surriscaldamento dei reattori, ma lo tsunami aveva ormai sfondato le difese marittime dell’impianto nucleare e aveva allagato le parti inferiori di quattro dei sei edifici dei reattori, causando un guasto nei generatori di emergenza, necessari proprio per permettere il pompaggio di acqua fredda. Il surriscaldamento dei nuclei aveva causato la fusione del nocciolo di tre delle unità. Al momento del disastro, le operazioni del quarto reattore erano sospese per manutenzione. 

Fuori uso i sistemi di raffreddamento, l’acqua cominciò ad evaporare, raggiungendo temperature sopra i 700-800 gradi, scindendosi nei suoi due componenti, ossigeno e idrogeno, un mix talmente reattivo che generò una serie di esplosioni che scoperchiarono il tetto della centrale, portando i noccioli dei reattori coinvolti alla fusione per surriscaldamento e provocando un rilascio di sostanze radioattive: iodio, cesio e isotopi del cesio.Tutto ciò costrinse naturalmente decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case. Oltre alle cause naturali, sono state riscontrate responsabilità umane nel corso degli anni; prima di tutte la centrale era  stata costruita praticamente sul livello del mare in una zona soggetta purtroppo ad eventi climatici piuttosto violenti ed inoltre furono disattese dal gestore della centrale, la  Tepco, le richieste da parte dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) di predisporre un sistema di protezione dei motori diesel – necessari per il raffreddamento dei reattori – o comunque di spostarli più in alto in collina. C’è da sottolineare anche che la Tepco, nel momento dell’emergenza, si rifiutò di utilizzare acqua di mare per spengere gli incendi per paura di danni agli impianti nucleari e conseguenti perdite economiche. Per quanto riguarda lo stato attuale della bonifica e smantellamento delle strutture danneggiate, sembra che purtroppo i lavori procedano a rilento. La Tepco ha preventivato un costo di 76 miliardi di dollari ed una tempistica che si aggira sui 30 anni. Devono essere recuperate le barre di combustione dai reattori (solo per il numero 3 sono state recuperate tutte le 566) utilizzando una gru azionata a distanza, ma la parte più delicata è proprio la rimozione del materiale fuso all’interno del nocciolo, peraltro sconosciuto in termini di quantità, localizzazione e stato.

Nella centrale c’è ancora presenza di radioattività e calore residuo che necessitano di acqua per mantenere bassa la temperatura; questa acqua contaminata, viene stoccata in vasche di contenimento ma oramai quasi tutto lo spazio disponibile è stato occupato da questi serbatoi e si prevede che non ci sarà più lo spazio di stoccaggio necessario a fine estate di quest’anno. D’altronde si parla di un accumulo negli anni di 1,24 milioni di tonnellate di acqua con un ritmo di 160 tonnellate di acqua in più al giorno. Ad oggi, una tra le proposte più accreditate è quella di versare nell’Oceano quest’acqua (depurata ma sempre con una piccola percentuale di radioattività) in maniera lenta e progressiva nel corso degli anni. Ovviamente, come si può immaginare, ciò ha preoccupato molti ambientalisti e in particolare l’industria ittica. Attualmente le autorità giapponesi hanno concesso l’autorizzazione a rientrare nelle proprie case solo ad una piccola percentuale di residenti poiché è ancora piuttosto alto il livello delle radiazioni. Coloro che vivono lì sono prevalentemente gli operai ed i tecnici che lavorano allo smantellamento e le guardie di sicurezza che controllano che gli estranei non superino le transenne che delimitano l’area a rischio. Secondo le ricerche di Greenpeace, solo il 15% degli 840 chilometri quadrati considerati essere i più contaminati dal disastro è stato bonificato. Il disastro di Fukushima è ancora classificato come il secondo incidente nucleare più grave della storia dopo quello di Chernobyl

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