Nato a Firenze nel 1971, è stato il responsabile per la sezione della cronaca giudiziaria del quotidiano la Nazione per 15 anni. Nel 2016 ha iniziato a scrivere una serie thriller incentrata sulle indagini di un giornalista Carlo Alberti Marchi. Il primo romanzo della serie Il rumore della pioggia è stato pubblicato nel 2016 seguito da Il respiro delle anime nel 2017 e da La fragilità degli angeli nel 2018, oggi raccolti in un unico volume, I misteri di Firenze. Nel 2021 è uscito Il giorno del sacrificio, mentre nel marzo 2022 è uscito Diritto di sangue.

Perché ha iniziato a scrivere romanzi e perché proprio gialli?
Ho iniziato a scrivere, in particolare a scrivere gialli, perché volevo vedere se ne fossi stato capace. Ho letto moltissimi gialli nella mia vita, sin da ragazzino, leggevo Arthur Conan Doyle, poi sono passato alle spy stories, perché mi piacevano di più; avendo letto tanto, volevo capire se fossi stato in grado di scrivere un’idea, di farmi venire in mente un’idea. Così ho provato, il primo libro l’ho scritto durante pausa pranzo al giornale, in silenzio; mentre lo scrivevo, capitolo dopo capitolo, lo condividevo con degli amici o persone che a cui comunque volevo bene o erano legate a me. Tutti dicevano: “bellino, bellino”, finché non l’ho finito e allora mi hanno consigliato di mandarlo ad un editore. Dopo aver mandato una email alla Giunti, mi hanno dato una risposta, quell’email è stata come una bottiglia nel mare quella mail, dato che non conoscevo nessuno nel settore.


Cosa le piace di più dello scrivere e dell’essere giornalista?
Dell’essere giornalista soprattutto mi piace il lavoro in sé dato che ho sempre sognato di farlo, fin da quando ero alle elementari e scrivevo nel giornalino di classe, ritagliando le vignette da “Topolino”. Poi, in quarta ginnasio, ho iniziato a collaborare con un giornale, scrivendo della squadra di football americano di Firenze, la Paci Firenze, che era nata intorno alla facoltà di giurisprudenza, allora in via Laura. I giocatori erano amici di mia sorella e avevano bisogno di qualcuno che scrivesse di loro, io ero particolarmente colpito da questo strano sport, così arrivai a scrivere per la Nazione e infine diventai il più giovane giornalista d’Italia iscritto all’albo, nel ’90. Mi è sempre piaciuto questo mestiere perché posso parlare e raccontare di tutto quello che la gente non può vedere, per esempio: mi sarebbe piaciuto moltissimo, ci ho anche provato, ad andare in Ucraina poco prima che scoppiasse la guerra, perché mi sarebbe piaciuto raccontare quello che magari le telecamere non vedevano, raccontarle ai miei occhi e a quelli degli altri. Raccontare alla gente quello che non può vedere, perché non tutti i luoghi del mondo sono raggiungibili attraverso le immagini, e il lavoro del giornalista è un po’ questo. Spiegare quello che succede nel mondo credo sia un bel lavoro, anche se ultimamente non è che i giornalisti siano molto amati.


Da dove inizia le storie e come riesce ad andare avanti?
L’ispirazione può capitare in ogni momento. Ad esempio Il rumore della pioggia, è una storia vera, ho preso spunto da un delitto irrisolto, realmente successo a Firenze, negli anni 90. La trama “giorno del sacrificio” mi venne in mente perché, prima del Covid, la vera emergenza mondiale era il terrorismo, c’erano stati attentati in Francia, in Spagna, in Inghilterra e quindi mi era nata una domanda: “perché i terroristi hanno attaccato in numerosi paesi europei e non in Italia?” E allora mi sono immaginato quale attentato sarebbe potuto accadere in Italia e dove sarebbe potuto accadere – probabilmente a Roma, Venezia o Firenze; mi sono immaginato se succedesse a Firenze, non in un banale Ponte Vecchio o Piazza della Signoria, ma in un posto dove passa un sacco di gente, in cui ci passo spesso con mia figlia, ovvero le Serre. Il quinto l’ho scritto ispirandomi alle brigate rosse, perché mi piaceva l’idea di affrontare questo tema. E’ come fare un viaggio in macchina, parti da Firenze e devi arrivare a Aosta, quindi conosci il percorso che devi fare, allo stesso modo una volta che so che cosa devo fare, il percorso che devo fare, studio l’itinerario che ovviamente non deve essere dritto, altrimenti è troppo facile, ma faccio un giro un po’ più largo e mi creo un plot di circa una pagina e mezzo. Qui comincia la parte più complicata: prendo questa pagina del “plot” e la spezzo in trenta parti, che poi sviluppo in trenta capitoli e cerco di fare trovare un modo di far finire con un qualcosa di in sospeso ogni capitolo, poi una volta fatto questo ho i binari del mio treno. Però, come nei viaggi in macchina, se fossi andando ad Aosta passando da Reggio Emilia e dall’autostrada vedessi una chiesina, allora uscirei dall’autostrada e mi fermerei a guardarla e magari mi piacerebbe anche, così nello scrivere, spesso succede, anzi come sempre è successo fino ad ora, mi trovo per esempio al capitolo quindicesimo anche se secondo il mio schema dovrei essere al tredicesimo, perché mentre scrivo mi sono venute in mente altre idee intorno alla storia principale. Però comunque resta uno schema, resta un binario, ma non significa essere rigidi, significa sapere dove si vuole andare.


Pensa sia cambiato qualcosa in lei come giornalista da quando ha iniziato a scrivere romanzi oppure no?
Sono cose molto simili, credo che l’unica cosa che accomuna i giornalisti con gli scrittori sia la conoscenza del congiuntivo, però per i giornalisti spesso è una sciocchezza. No, non credo sia cambiato molto, casomai è cambiato un po’ come mi osservano, perché mi guardano con un’aria un po’ strana. Io mi sento un giornalista, anzi sono un giornalista. In un famoso libro di Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert, c’è un colloquio fra un giovane scrittore, che ha scritto un libro ed è in crisi di ispirazione, e il suo mentore che è anche lui uno scrittore. Il ragazzo dice: “E come si fa a sapere di essere uno scrittore, Harry?”, e l’altro risponde: “Nessuno sa di essere uno scrittore, Marcus. Glielo dicono gli altri.”. Io penso, effettivamente, che questo sia vero. Uso lo stesso linguaggio e la stessa sintassi sia nel giornalismo che nello scrivere libri. Credo che scrivere semplice sia una cosa difficilissima, bisogna scrivere semplice per far capire tutti. Se un lettore non capisce ciò che è stato scritto, non è colpa sua, ma dello scrittore che non ha dato un quadro chiaro a sufficienza.


Quali sono le difficoltà principali che ha incontrato quando ha iniziato a scrivere romanzi?
Credo sia stata la ricerca dell’accuratezza di quello che scrivo, sembra poco importante, però io punto molto sulla precisione, anche grazie alla mia formazione personale di tanti anni nel giornalismo. Nel quarto libro della serie il protagonista ha un flashback dell’89 nella capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh. Ho guardato tutte le cartine e ho notato che quasi tutte le strade e anche la strada principale erano state realizzate dopo quella data. Quindi la toponomastica era completamente diversa e per certi aspetti anche alcuni quartieri, quindi sono andato a cercare nell’archivio di stato dell’Arabia Saudita come era in quegli anni Riyadh. Per di più, mi serviva una macchina che fosse comune in Arabia Saudita in quegli anni, quindi sono andato a cercare quale era la macchina più venduta negli anni 80, perché non tutte le macchine sono adatte per quel paese a causa della sabbia, quindi le macchine che circolano in quelle terre devono essere protette affinché la sabbia non vada nel motore. Sono riuscito a scoprire che la macchina più venduta era la “Toyota Corolla”. Secondo me la parte più difficile è proprio questa: essere credibile, anche nelle assurdità, e penso che usando questo metodo il lettore se ne accorga se tu sei preciso o no.


Se possiamo considerare Carlo Alberto Marchi il suo alter ego, quali sono le differenze tra lei e il personaggio che ha creato?
Diciamo che io sono più fortunato da un punto di vista sentimentale. E’ vero quando dicono che sono simile al Carlo Alberti Marchi, nel quarto libro il protagonista viene mollato dalla fidanzata perché lo tradisce con un altro e tutti i miei conoscenti pensavano fosse accaduto davvero. Cerco di scrivere in modo verosimile perchè ho molta stima in chi legge i libri e chi usa parte del suo tempo a leggere libri, e anche io quando leggo un libro cerco di capire se lo scrittore ha scritto qualcosa di suo o per sentito dire. Quindi nei miei libri cerco di scrivere di cose che conosco molto bene, i giornalisti, i magistrati e tecniche investigative reali, parlo di cose vere. Come allo stesso tempo il rapporto tra Marchi e sua figlia è vero: il loro rapporto è esattamente uguale a quello di me e mia figlia. Anche io, similmente a Marchi, ho cresciuto mia figlia da solo da quando aveva sei anni e quindi i colloqui scherzosi tra loro due sono tutti presi da quelli tra me e mia figlia, tant’è che ora quando mia figlia mi dice le sue sentenze e io rispondo: “bellina questa la metto nel prossimo libro” facendola arrabbiare. Un altro esempio: nell’ultimo libro Marchi soffre di fischio alle orecchie e anche io ne soffro dal 2014 e so benissimo quanto sia invalidante, e quanto uno si senta sotto stress: all’inizio ti vuoi buttare dalla finestra poi ti abitui e non ci pensi. Quindi credo che io e Marchi siamo molto simili, non speculari, ma sicuramente molto simili.


Perché ha fatto di un giornalista il protagonista del suo giallo?
Perché non c’era, nel giallo italiano ci sono numerosissimi commissari, avvocati, magistrati, poliziotti, carabinieri come protagonisti. Ci sono alcuni giornalisti fra i personaggi, ma sono molto diversi dalla gran parte dei giornalisti reali, tipo il pensionato, il freelance; quindi ho pensato il ruolo di giornalista fosse divertente, anche perché il giornalista che ho creato è reale: Marchi non risolve casi, è un osservatore che per motivi di lavoro si trova a cercare la verità, non la verità processuale, quella la cerca un magistrato o i poliziotti. Marchi è solo un lettore che cerca di capire cosa è successo, tranne nell’ultimo libro nel quale dice: “per tutta la vita ho cercato la verità per il mio lavoro, il mio giornale, stavolta la verità la cerco per il mio diritto profondo personale, il mio diritto di sangue”.


Quali sono i suoi autori di genere preferiti? E chi ha preso come modello per i suoi libri?

I miei autori di gialli preferiti sono principalmente due: il mio giallista di riferimento e modello è Michael Connelly, che attualmente è il più grande autore di noir d’America e non a caso è un ex giornalista del Los Angeles Times, infatti scrive come scrivo io, cioè discorsi brevi, linguaggio semplice. Connelly è il creatore della serie di questo poliziotto Hieronymus “Harry” Bosch, ha scritto circa trenta libri. Mi piace perché ha il mio stesso background ed ha il mio stesso modo di scrivere. L’altro è, secondo me, un autore che va oltre il noir perché scrive divinamente, anche lui americano, Don Winslow, autore di una straordinaria trilogia di libri sulla guerra contro il narcotraffico tra Stati Uniti, secondo me scrive in un modo straordinario.

5 2 votes
Article Rating