L’opera di Giorgio Gaber non si limita alla musica, al Caberet, al teatro.

I liberi pensatori capaci come Gaber di delineare la società nelle sue sfaccettature, con umorismo e ironia pungenti, e insieme cogliere qualsiasi moto dell’animo umano, non si possono identificare con un’attività, perché la loro opera lascia un bene inestimabile: la possibilità di riflettere. Probabilmente tanti ribatterebbero sbuffando che tale bene, vuoto parolone, si relega a una stretta èlite di saccentoni. Si può osservare però che ragionare sulla realtà che viviamo non deve essere un’attività totalizzante, quanto piuttosto una via democratica per conseguire accortezza e disillusione da credenze ingannevoli.

Si ricorda così il vissuto di un personaggio importante in questo senso.

Giorgio Gaberščik (in arte Gaber) nasce a Milano da una famiglia modesta, il 25 gennaio 1939. Da piccolo contrae la poliomielite, una disfunzione del sistema nervoso, che gli causa una lieve paralisi alla mano. Impara a suonare la chitarra per muovere le dita. Così dalla malattia nasce la sua passione per la musica. Da adolescente amante del jazz, collabora da chitarrista con i coetanei Adriano Celentano, Enzo Jannacci e Luigi Tenco, con i quali instaura intesa professionale e amicizia. Porta avanti musica e studio: nel 1958 si diploma come ragioniere, ma non si dedicherà al mestiere.

Il debutto da solista avviene grazie a Nanni Ricordi, direttore artistico dell’omonima casa discografica, che lo nota; incide quattro canzoni tra cui Ciao ti dirò, tra le prime rock in italiano.

Ai primi anni da cantante risalgono comparse in televisione, canzoni ironiche e allegre come La ballata del Cerutti e Goganga. Riesce fondere i generi rock, jazz e il cantautorato francese, diventando tra gli inauguratori della canzone d’autore in italiano.

Nel 1965 sposa Ombretta Colli, cantante e attrice con cui avrà una figlia.

Idea, conduce e partecipa a festival e trasmissioni musicali, guadagnandosi sempre più popolarità.

Nello stile di Gaber, ironico e baldanzoso, c’è uno scatto con Com’è bella la città (1969), canzone che preannuncia l’attenzione dell’artista alle questioni sociali: si parla appunto della città, luogo frenetico che sembra ormai l’unico a offrire una parvenza di allegria, con luci, negozi e vivacità che vogliono riempire un atavico vuoto.

Parallelamente l’Italia, a seguito del boom economico, entra in un periodo di cambiamento, caos e ostilità tra ideologie: sono gli anni della contestazione, di stravolgimento dei rapporti sociali.

Sexus et politica (1970), che ricorda l’antica Roma sottolineandone tendenze ancora attuali, è l’ultimo album prima del distacco dalla televisione.

Il tramonto degli anni Sessanta segna l’inizio di un nuovo stile per Gaber e un nuovo capitolo per la storia d’Italia.

Il decennio successivo e i primi anni Ottanta sono infatti conosciuti come anni di piombo per degli attentati terroristici causati da formazioni armate di estrema destra (Brigate Nere) e sinistra (Brigate Rosse). Da una parte, il forte dissenso verso le innovazioni di costume scaturite dalle contestazioni, dall’altra il progetto di una società comunista, portano alla violenza intesa come unico mezzo mediatico (queste formazioni erano infatti generalmente extraparlamentari). La comune strategia della tensione usava il terrorismo contro Stato e cittadini, esacerbando il clima di inquietudine dovuto alla crisi economica per l’aumento del costo del petrolio.

Le Brigate Nere causarono attentati indiscriminati come la strage di Piazza Fontana a Milano (1969) e l’attentato alla stazione di Bologna (1980), mentre le Brigate Rosse effettuarono attentati mirati a personaggi di spicco, come Aldo Moro, ucciso nel 1978. Questi eventi segnarono tutto il Paese e l’opera di Gaber, stanco di dover dissimulare la propria angoscia per il rigido codice comportamentale del mondo televisivo. Si butta così nell’attività teatrale, assai prolifica e appassionata; può instaurare un rapporto più stretto con il pubblico, esprimersi più liberamente e toccare il culmine della sua grandezza artistica. Crea il genere del teatro canzone, in cui la canzone è trasferita dallo schermo al teatro. Dalle registrazioni dei suoi spettacoli nascono numerosi album.

Offre al pubblico un’immagine di sé spontanea, sebbene teatrale: diventa il Signor G, l’uomo che recita la parte di se stesso e non più quella di ammaliante conduttore televisivo. È una persona qualunque, “con i suoi dolori e le sue contraddizioni” che racconta, lusingato dal privilegio di poterli esternare, forte della collaborazione dell’inseparabile amico e pittore Sandro Luporini per comporre testi.

Gaber con l’amico Luporini

Recita monologhi, ognuno seguito da una canzone che prosegue la trattazione del tema di ciascuno spettacolo, che diventa così “organico”.

Sebbene timido di carattere, dopo il “primo quarto d’ora sul palco”, conquista il pubblico grazie alla sua schiettezza, se non in certi casi spudoratezza.

Dopo il successo con Mina nel 1969, l’anno successivo esordisce a teatro da solo, supportato dal produttore Paolo Grassi, che lo incoraggia a proseguire il nuovo mestiere nonostante lo scarso successo iniziale.

Da allora, quasi ogni anno si prende quattro mesi per elaborare con Luporini i testi, otto per esibirli. Sembrerebbe un lavoro estenuante, ma non lo fu perché perseguito con passione. Ma cosa rende l’opera di Gaber memorabile? Si potrebbe rispondere la sua onestà intellettuale, mai offuscata dal suo ateismo né posizioni politiche, i suoi contenuti, la critica a una società di consumisti interiormente divisi e ipocriti.  Società in cui il potere piega e corrompe, manipola e disumanizza le persone.

L’individuo non si comprende, ma per togliersi ogni dubbio esistenziale si aggrappa disperatamente a etichette, ornamenti e atteggiamenti (magari fasulli) che possono farlo sentire qualcuno (constatazioni chiare in album come I borghesi (1971), Dialogo tra un impegnato e un non so (1972) e altri ancora). L’ipocrisia sorge per paura di esprimere un giudizio, un modo di essere disapprovati: non c’è via d’uscita dalla massificazione. Si è troppo impegnati a mantenere, costi quel che costi, una posizione, una dignità riconosciuta, per ritagliarsi del tempo di riflessione.

Gaber pone attenzione all’autoanalisi, al rapporto tra mente e corpo, deteriorato perché ormai insieme di gesti quasi automatici di abitudini inspiegabili, persino disprezzate (come nell’album Far finta di essere sani (1973) e Anche per oggi non si vola (1974), in particolare nella canzone L’elastico, in cui un’orrenda suggestione descrive, al confine tra poesia e follia, il malessere di un individuo alienato, oppresso dalla società).

La divisione dell’individuo provoca anche l’inconciliabilità tra piano ideologico e pratico, costringendolo così a un abbandono magari inconsapevole alla massificazione (si veda l’album Libertà obbligatoria (1975), esempio eclatante di una triste mercificazione delle libertà, spogliate di significato perché usate a mo’ di abbellimento di un discorso). La pazzia, la morbosità sono trattate in vari album come Far finta di essere sani e Libertà obbligatoria, intese come stranezze che possono inorgoglire chi si crede normale o chi si sente diverso. Questo senso di superiorità non è così giustificabile, in quanto ciascuno potrebbe celare particolarità, bizzarrie più o meno malsane. Esse potrebbero derivare dal disagio che le persone sperimentano da secoli, più o meno intensamente, dovuto all’oppressione delle convenzioni sull’individuo. La vicinanza del tema è dovuta all’orribile realtà dei manicomi, in Italia chiusi solo nel 1978, luoghi di maltrattamento a cui sono confinate persone percepite “matte”, magari senza fondamento.

Questi album riscuotono grande successo, perché si riscontra in essi grande veridicità di contenuto, tale da essere spesso repressa per paura di ostracismo conseguente alla sua menzione.

Col tempo un Gaber sempre più disincantato prende le distanze da certezze ideologiche e coscienza ostentate da gran parte del suo pubblico, come lui tendenzialmente di sinistra. Appena il pubblico si sente oggetto e non solo ascoltatore di critiche, all’artista si indirizzano fischi, lanci di oggetti. Comprensibilmente estenuato dallo sprezzante ritorno, per due anni, sebbene con dolore, sospende l’attività teatrale.

È significativamente l’album Polli di allevamento (1978) a sancire lo strappo tra artista e parte di pubblico fintamente elevata sul piano intellettuale. Sempre nel 1978 scrive Io se fossi Dio, tra le sue canzoni più arrabbiate, che denuncia il deterioramento in politica e in società, condita con un risentimento veramente provato dall’artista che, sconfortato dall’amarezza dell’epoca, non sa tuttavia come cambiare le cose.

Il testo è scandaloso perché grida la dilagante corruzione politica, la droga, che tiene soggiogata sempre più vasta parte di popolazione, e Aldo Moro, poco prima ucciso nel contesto di quegli anni di piombo: si toccano problematiche scottanti di impatto fortissimo sugli ascoltatori, che in parte condividevano, in parte volevano dimenticare tutto quel dolore. La canzone appartiene all’album Anni affollati (1981), con testi più colti ma comunque pungenti, di sicuro non allegri, ma che fanno pensare. I brani sono pessimistici riguardo la bassezza, forse connaturata, raggiunta dall’essere umano, e se fanno sorridere, i sorrisi sono amari.

È innegabile lo spessore letterario di tante canzoni di Gaber, infatti nominato presidente dell’Associazione Autori di testi letterari e musicali nel 1982.

Compone alcune commedie che vedono spesso la moglie interprete principale, come Una donna tutta sbagliata (1983), Aiuto…sono una donna di successo (1985). Recita in alcuni film in cui si riconosce il suo brillante estro (per esempio ne Il minestrone, 1981).

Al ritorno sul palcoscenico come cantattore, gli album Io se fossi Gaber (1984) e Il Grigio (1988) ottengono discreto successo. Il secondo, composto da soli monologhi, è un confronto tra sé e sé esasperato rispetto agli album precedenti.

Nonostante i primi segnali di un cancro ai polmoni, Gaber lavora senza risparmiarsi. Nel 1992, con lo spettacolo Il Teatro Canzone riassume venti anni di attività in una fruttuosa tournèe.

E pensare che c’era il pensiero (1994), Un’idiozia conquistata a fatica (1998), Io non mi sento italiano (pubblicato postumo) sono gli ultimi album che, pur costituendo una rielaborazione di temi già affrontati, li contestualizzano nella società degli anni Novanta, in cui Gaber avverte una finta premura verso il prossimo e un più marcato appiattimento di individui come storditi, tempestati di talk show e ideologie che hanno attraversato il secolo. Non a caso Il conformista è il titolo di una famosa canzone di Un’idiozia conquistata a fatica.

Muore il primo gennaio 2003, per l’aggravarsi della malattia con cui conviveva da anni. Piazze, album, festival musicali e teatri sono stati dedicati alla memoria di questo straordinario artista, ma non si deve trascurare di cogliere l’attualità del suo messaggio, non solo perché studiò e descrisse le problematiche di società a noi vicina, figlia di un sistema capitalistico e consumistico, ma perché certe costanti dell’animo umano sono trattate con rara lucidità in certe sue canzoni, come follia, noia, gioia, delusione, amore, bisogno di affermazione… Un artista straordinario come Gaber più che da adorare, magari anche acriticamente, sarebbe quindi da ascoltare, facendo tesoro dei suoi messaggi, senza per forza condividerli. Custodire la sua memoria significa custodire un esempio di grande profondità intellettuale e un testamento di anni difficili vissuti dall’Italia.

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