Il “giorno della memoria” non è un semplice giorno di commemorazione, è un giorno di riflessione sulle atrocità che può arrivare a compiere la follia umana; è un giorno di pace, quella pace tanto agognata che ancora oggi non riusciamo a raggiungere.

Oggi 27 gennaio, non è un giorno come tutti gli altri, è un giorno di memoria, appunto, ma una memoria che deve essere costruttiva, che non si deve e non si dovrà mai fermare, che deve passare di generazione in generazione. Un ricordo indelebile in tutti noi; indelebile come il numero tatuato sul corpo dei deportati, indelebile come le atrocità che ha visto ed ha dovuto sopportare una piccola bambina di tre anni, Lidia Maksymowicz, che, invece di godersi la sua infanzia spensieratamente, ha dovuto vivere in prima persona le oscenità delle deportazioni naziste.

Lidia nasce nel 1940 nell’attuale Bielorussia ed è lì che trascorre i suoi primissimi mesi di vita, in piena guerra. Fin da subito la sua famiglia aveva ripudiato il regime nazista e aveva cercato in tutti i modi di opporsi, combattendo per la libertà del suo paese. Essendo oppositori al regime, sono costretti a scappare ed a rifugiarsi nei boschi al confine tra Polonia e l’attuale Bielorussia, con scarsità di cibo ed acqua e sempre con la paura di poter essere catturati da un momento all’altro. Purtroppo questo momento arriverà e da lì in poi si spalancheranno dinanzi a Lidia le porte dell’inferno…

Il mio racconto si interrompe qua perché sarà proprio Lidia Maksymowicz in persona a proseguirlo. Ho avuto l’onore di conoscerla e di poterle fare qualche domanda, visto che in questi giorni è qua a Firenze a presentare il suo libro “70072: La bambina che non sapeva odiare”, scritto insieme al vaticanista Paolo Rodari

Ringrazio Lidia e tutti coloro che hanno contribuito alla riuscita di questa intervista. Lascio che sia lei stessa a raccontare la sua commovente e toccante storia.

Ci racconti la sua storia: com’era la vita nel campo di concentramento, cosa facevate, come è arrivata al campo e come è riuscita a salvarsi.

E’ difficile raccontare ai ragazzi di oggi com’era la vita nei lager nazisti e quello che ho vissuto in prima persona. La mia vita nel campo era simile a quella di tante altre persone che sono state deportate durante la seconda guerra mondiale. Nei campi di concentramento polacchi furono deportati circa 1 milione e 300 mila persone circa e 230 mila bambini circa, di questi bambini si stima che solo in 600 circa si salvarono. Io sono stata una delle poche fortunate. Tra i prigionieri vi erano soprattutto ebrei, ma anche persone, come me e la mia famiglia, di altre nazionalità o di altre religioni, che erano contro il regime nazista.

Prima di essere catturati abbiamo vissuto nei boschi polacchi e sovietici insieme ad altri fuggitivi, perché la casa dei miei nonni in cui vivevo con mia madre e mio padre era stata bruciata. Sono stata catturata e rinchiusa in una prigione dai nazisti nell’inverno del 1943 e dopo qualche giorno sono stata deportata ad Auschwitz-Birkenau insieme alla mia famiglia. Il viaggio è stato traumatico, ma era solo l’inizio di ciò che ci avrebbe aspettato nel lager. Siamo stati trasportati su un treno destinato al bestiame, caratterizzato da un insistente fetore. Eravamo stipati, non c’era spazio nemmeno per respirare. 

Abbiamo viaggiato diversi giorni con condizioni igieniche veramente pessime, senz’acqua e senza cibo. Finalmente siamo arrivati al campo in uno stato veramente debole e stanco, senza sapere cosa ci avrebbe aspettato. 

Appena scesi al vagone ad “accoglierci” c’erano guardie che gridavano, con cani al guinzaglio che latravano ininterrottamente: eravamo giunti all’inferno…

 I miei nonni, troppo anziani per essere utili al lavoro, erano subito destinati ai forni crematori, non ho avuto nemmeno il tempo di poterli salutare ed abbracciarli; le guardie li hanno portati via violentemente in direzione dei “camini fumanti”; da quel momento non li ho più visti. 

Le mamme, e quindi anche la mia, inizialmente tenevano in braccio i proprio bambini, ma le guardie glieli strappavano di mano, i tentativi di recuperarli erano invani; mia madre provò a tenermi con tutta la sua forza, ma due soldati tedeschi la strattonarono, portandomi via dalle sue braccia. Le donne venivano mandate verso le baracche di mattoni, dove venivano rasate, bastonate e picchiate senza pietà. Noi bambini, invece, venivamo portati in una baracca separata, dove dormivamo su dei tavolacci di legno con sopra un po’ di paglia.

I bambini non erano adatti per il lavoro, ma venivano sfruttati come cavie per gli esperimenti “pseudomedici”, su ordine delle case farmaceutiche tedesche, da parte del dottor Josef Mengele. Venivamo trattati come i prigionieri adulti, non avevamo cibo, acqua e ed eravamo senza il bagno: le condizioni erano disumane. 

Mi ricordo benissimo la paura che avevamo quando arrivavano i soldati tedeschi nella nostra baracca e ci portavano nel laboratorio del dottor Mengele; eravamo terrorizzati, poteva toccare a me o alla mia vicina di letto. Sui bambini venivano fatte trasfusioni di sangue, test di vaccini, ci mettevano sostanze chimiche negli occhi per cambiarne il colore e farli diventare azzurri; molti persero per sempre la vista. Fortunatamente io ho gli occhi azzurri, quindi non mi iniettarono nessun composto chimico. 

Molti bambini persero la vita a causa delle iniezioni di fenolo, una sostanza chimica tossica e corrosiva per gli occhi, la pelle e le vie respiratorie; come se non bastasse i cadaveri dei bambini venivano sottoposti all’autopsia in modo da poter studiare le eventuali mutazioni dei loro organi e scheletri. I bambini sopravvissuti agli esperimenti erano stremati, si ammalavano facilmente, la loro pelle era quasi trasparente e ricoperta quasi interamente da pustole. 

L’inverno del 1943 era molto freddo, le temperature scendevano fino a -20°, non avevamo niente per coprirci, tranne un po’ di paglia e una specie di straccio diventato ruvido dalla sporcizia e pieno di insetti. Oltre al freddo dovevamo sopportare la fame che ci straziava lo stomaco; la mattina ci veniva dato un pezzo di pane duro, praticamente immangiabile, molto probabilmente avanzato da qualche giorno e la sera per cena avevamo un po’ di zuppa che non assomigliava affatto alla nostra. 

Tanti bambini morivano a causa delle malattie, del freddo, della fame e trovavamo i loro cadaveri accanto a noi. Inizialmente rimanevo impressionata, poi però ci avevo fatto l’abitudine e negli ultimi tempi rimanevo quasi indifferente, vivendo costantemente a contatto con la morte. Tra di noi non c’era né amicizia né solidarietà, ognuno di noi “combatteva” per se stesso grazie al proprio istinto di sopravvivenza. 

Io sono sopravvissuta circa due anni nel campo di concentramento grazie alla provvidenza divina, prima che venisse liberato nel gennaio del 1945.

Sono stata fortunata a rimanere in vita, perché dopo l’inferno di Auschwitz sono stata adottata e cresciuta con amore da una famiglia polacca ed ho cominciato la mia nuova vita.

Non ha avuto più contatti con la madre naturale? Siete riuscite a incontrarvi nuovamente? Quali emozioni ha provato quando l’ha rivista?

Inizialmente credevo che mia mamma fosse morta nel campo di concentramento e così pensavano anche i miei genitori adottivi, non avevamo più avuto notizie ed io ormai avevo dato per certo che fosse deceduta. Infatti quando scoprii che era viva mi arrabbiai molto perché pensavo che non mi avesse più cercato, invece non fu così. Mia madre provò a trovarmi in tutti i modi, quando ci liberarono da Auschwitz, ma non riuscì a vedermi. Le dissero che gli orfani erano stati portati nell’allora Unione Sovietica, ma in realtà non era vero; lei, allora, provò a cercarmi in tutti i modi, scrivendo a tutti gli orfanotrofi russi per sapere se ci fossi io. Ma ebbe solo risposte negative. Il suo cuore era spezzato, pensava alla sua piccola Lidia portata via da quei criminali nazisti, ormai aveva perso la speranza finché…

I miei genitori adottivi all’inizio provarono in qualche modo a mandare lettere a Mosca, ma era molto difficile perché, fino alla morte di Stalin, comunicare con una persona che abitava nell’URSS era quasi impossibile; quindi anche noi avevamo perso le speranze.

All’età di 17 anni, spinta da un gruppo di amici, decisi di scrivere all’ufficio di ricerca dei superstiti di guerra di Amburgo, che tramite altri uffici, scoprì che in Russia c’era una donna che da oltre dieci anni stava cercando la sua bambina scomparsa ad Auschwitz; questa donna aveva tatuato un numero molto simile al mio, quindi doveva essere per forza mia madre. Mi si gelò il sangue, inizialmente non riuscivo a crederci, mia madre era ancora viva e mi stava cercando!

Le due ambasciate si misero d’accordo ed organizzarono l’incontro in un hotel lussuoso di Mosca, l’evento fu diffuso in tutti i mass media dell’epoca, fu fatto passare come una grande vittoria dell’URSS: far ricongiungere madre e figlia dopo oltre un decennio; soprattutto dava ancora più speranza alle famiglie che avevano perso i parenti più cari.

Arrivai a Mosca in treno con un bellissimo mazzo di fiori; appena scesi, mia madre svenne dall’emozione, si aspettava di rivedere la sua piccola Lidia ed invece, ormai ero una donna grande e matura, per un paio di giorni non riuscimmo a parlare, tra giornalisti e riprese dell’epoca. 

Alla fine ci abbracciammo, lei iniziò a raccontarmi cosa era successo in tutto quel tempo, anche dettagli o avvenimenti che non ricordavo, e piangemmo per l’emozione.

Adesso i campi di concentramento sono diventati dei musei e sono visitabili ai turisti, affinché la memoria non svanisca mai. Cosa ha provato a ritornare ad Auschwitz? E’ cambiato rispetto a prima?

Sparsi per il territorio polacco c’erano tantissimi campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Il più importante campo di sterminio era quello di Auschwitz-Birkenau, che veniva chiamato “la fabbrica della morte”, per questo motivo tutt’oggi è mantenuto in uno stato perfetto. Ritornarci dopo tanti anni è stata un’emozione incredibile, avevo la pelle d’oca e le lacrime agli occhi.

La visita comincia dalla cosiddetta “porta della morte”, dove vi è scritta la frase indelebile nella mia mente “Il lavoro ti rende libero”, ma ovviamente non era così. Dopo aver attraversato questa porta si diventava solamente semplici numeri, io ce l’ho ancora tatuato sull’avambraccio “70072”, per me è un’impronta che non mi permette di superare ciò che ho vissuto. Superata quella maledetta scritta si veniva deprivati della natura umana, non vi era più umanità là dentro. Durante la visita del campo nelle baracche rimaste si possono osservare gli oggetti lasciati dai prigionieri come ad esempio: le valigie, gli occhiali, i cappelli, i vestiti ecc, chissà forse ci sarà anche qualcosa di mio… 

Dopo questa parte della visita ad Auschwitz, si passa alla seconda parte del campo chiamata Birkenau, il suo territorio è ancora oggi circondato dal filo spinato, che durante la guerra era ad alta tensione elettrica. I prigionieri non avevano la possibilità di scappare, ma alcuni, non sopportando più le atrocità del campo, si suicidavano, gettandosi contro il filo spinato, e quando accadeva, si assisteva a delle scene raccapriccianti. 

Dopo aver attraversato la porta di Birkenau si continua la visita lungo i binari, che dividono il vasto territorio chiamato “rampa” dove venivano scaricati i deportati come dei semplici oggetti. Entrando nel campo da una parte troviamo le baracche in mattoni, destinate alle donne, ancora oggi ben conservate, mentre dall’altra vediamo i forni crematori; data la vastità del territorio possiamo solo immaginare il numero elevato di persone detenute, che avevano il diritto di vivere fin quando erano utili per il lavoro. 

Le condizioni della vita nel campo erano terribili e durante la visita contemporanea non si riesce ad immaginare come era allora, perché adesso tutto è tenuto in ordine ed è pulito; ma all’epoca tutto era sporco pieno di insetti, sporco, tutto puzzava, era buio freddo e non c’era alcun tipo di impianto sanitario.

Qual è il messaggio che vuole mandare a tutti i giovani ed alle nuove generazioni?

Io sono stata fortunata e la mia missione è quella di dare voce ai 200 mila bambini più sfortunati di me che purtroppo non ce l’hanno fatta, per questo motivo collaboro da anni con l’associazione “La Memoria Viva” in Italia, con il Museo Galicja a Cracovia e con il Museo di Auschwitz-Birkenau. Il futuro dei giovani è nelle loro mani e non possono permettere che si ripetano le atrocità della seconda guerra mondiale. Io sono una testimone diretta di quegli orrori, per questo motivo sono una portatrice di pace e il mio compito è quello di diffondere il più possibile la mia storia, affinché la memoria non svanisca nel nulla.

Lidia Maksymowicz

I progetti del libro e del docufilm, entrambi intitolati “70027: La bambina che non sapeva odiare”, nascono in maniera disgiunta. Inizialmente grazie al lavoro portato avanti dall’associazione “La Memoria Viva” in piena pandemia, con tutte le difficoltà del caso, nacque il docufilm sulla storia di Lidia e solo un anno dopo circa il libro. E’ stato un lavoro lungo e faticoso, ma che ha portato grandissimi risultati, un documentario eccezionale, realizzato da persone fantastiche che hanno come passione ed hanno a cuore il voler diffondere la memoria di anni bui e terribili. Io ho avuto l’onore di  conoscere Roberto Falletti e Renata Rychlik, due persone fantastiche che hanno reso possibile quest’intervista e la realizzazione sia del libro che del docufilm, e soprattutto ho percepito la loro passione ed il loro amore per la storia di Lidia; mi hanno, addirittura invitato  a cena, affinché mi potessero spiegare nel miglior modo possibile tutto il loro lavoro che hanno fatto affinché la memoria non si perda mai. 

Il mio ringraziamento va a loro due ed in particolar modo a Lidia, ma anche a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione del libro e del docufilm come ad esempio l’ex senatore Eugenio Bozzello, Paolo Rodari, Papa Francesco, Italo Tibaldi, Liliana Segre, Tadeusz Jakubowicz ecc.

La storia completa di Lidia la potete trovare sia nel libro, in vendita nelle librerie, sia nel docufilm: il link lo trovate alla fine dell’articolo. E’ un onore poter intervistare Lidia e contribuire alla diffusione della sua storia, affinché la memoria non si interrompa mai.

Link del docufilm “70072: La bambina che non sapeva odiare”:

https://drive.google.com/file/d/1lJU5KxESlub1vFviDyIC8DJJCuP77kG8/view?usp=share_link

Stemma de
“La memoria Viva”
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