Leonardo Manzan è il nome del giovane regista romano pluripremiato che abbiamo avuto l’onore di intervistare, lo scorso venerdì al Teatro di Rifredi. Formatosi presso la Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, il regista venne scelto all’età di 26 da Antonio Latella, direttore del settore Teatro della Biennale di Venezia, e fu premiato come vincitore dell’edizione 2018/2019 del bando per registi under 30 di Biennale College, proponendo un estratto del suo progetto durante il 46° Festival Internazionale del Teatro. Manzan è conosciuto per aver vinto In-Box 2018 insieme alla compagnia Bahamut per It’s app to you. Il regista ha portato un estratto intitolato Cirano deve morire, per il quale ha tratto ispirazione da Cirano de Bergerac di Rostand. Lo spettacolo-concerto ha presentato testi e musiche originali, introducendo sul palco la poesia di fine Ottocento all’interno di versi rap. Solo due anni più tardi, all’età di 28 anni, Leonardo Manzan si è conquistato il riconoscimento per il miglior spettacolo alla Biennale di Venezia 2020, portando Glory Wall scritto assieme a Rocco Placidi.

Come è nata l’idea di unire il Cirano di Bergerac al teatro?

L’idea nasce dalla considerazione di Cirano come il primo rapper della storia. Noi lo vediamo sempre in questa sua veste polemica, con quest’attitudine di scagliarsi contro i nemici, l’ipocrisia e la corruzione come fa il rap stesso. Cirano è soprattutto un “rimatore all’impronta”, che versifica improvvisando. In più occasioni, all’interno del testo, organizza questi agoni drammatici in rima, infatti, ci sembrava attinente dato che ricordavano le battaglie rap di freestyle odierne. Proprio per questa sintonia che ha Cirano con il mondo del rap abbiamo pensato di riscrivere tutto il testo in chiave rap.

Com’è il rapporto fra i giovani e il teatro secondo lei?

È un rapporto quasi inesistente. Questa operazione che stiamo promovendo a dire la verità sta riscontrando molto successo tra i giovani, ed ne sono assolutamente contento. La mia ricerca non è nata con l’intento di portare uno spettacolo settoriale per i giovani. Chiaramente, i giovani sono attirati dal rap e Cirano di Bergerac è una storia meravigliosa. Il rapporto tra i giovani e il teatro è praticamente inesistente e troppo spesso viene cercata la colpa al di fuori del teatro, quindi nella scuola, nelle famiglie e nelle istituzioni, quando sono dell’idea che la colpa sia da cercare prevalentemente tra noi artisti. Se i giovani non vengono a teatro bisogna farsi un esame di coscienza privato; tra le mura della propria casa dobbiamo chiederci: “cosa facciamo per attirarli a teatro?”. Io stesso, che faccio per lavoro teatro, 9 volte su 10 quando vado ad una rappresentazione rimpiango di non essere rimasto a casa a vedere una serie su Netflix. Se non voglio andarci io, perché dovrebbe andarci un ragazzo di vent’anni?.

Come potremo riavvicinare i giovani al mondo del teatro?

Mi dispiace dirlo alla mia generazione, però, devono essere coloro che ora vengono considerati “i giovani emergenti del teatro” ad avere un occhio di riguardo per le nuove generazioni, dato che i giovani di oggi saranno il nostro pubblico, non il pubblico di teatro attuale. Potremmo far avvicinare i giovani sfoltendo il teatro dalla retorica passata e dal gusto dell’elitarismo. Sono molto fiducioso nella Gen Z, è una generazione che a me piace particolarmente. La mia è stata una generazione soprattutto di emulatori, siamo stati i “figli dei nostri padri” e li abbiamo seguiti quasi in tutto, ad esempio, anche al liceo facevamo le lotte studentesche simili a quelle del ’68, eppure non ci appartenevano. Questa nuova generazione ha un gusto distruttivo rispetto ai valori che le sono stati passati, porta un desiderio iconoclasta, voglia di tramutare i valori in disvalori e viceversa, cosa che a me piace molto. Sento un’energia nuova, infatti, ho molta più fiducia nella Gen Z che nella mia generazione, spinta da un’energia più “inerziale”.

Nel suo futuro vede qualche progetto con il teatro musicale oppure con il teatro d’opera?

Fare delle regie d’opera non mi dispiacerebbe affatto. Inizialmente avevo capito “teatro museale”, ed è un’espressione che mi interessa tantissimo in quanto mi sto avvicinando sempre di più all’arte contemporanea, un’arte visiva con installazioni. Devo dire che questa idea di teatro museale mi incuriosisce molto dal momento che, se penso al teatro, lo immagino come un museo. Il teatro è da sempre ritenuto come un ambiente polveroso, un po’ antico; mi diverte l’idea di accostare al teatro questa forma d’arte di installazione più vicina a una mostra, simile a un museo. Per parlare di nuove produzioni, sto pensando ad uno spettacolo che dovrebbe rispecchiare proprio questa idea.

Possiamo avere qualche anticipazione riguardo suoi progetti futuri?

Sto pensando ad uno spettacolo in cui vorrei entrare io stesso in scena. Sono diplomato come attore e poi sono passato alla regia, sottraendomi dal palco. Mi piacerebbe tornare sul palco mettendomi in scena su un piedistallo, presentandomi al pubblico come un’opera d’arte. È un progetto ancora alla forma embrionale, da qui al debutto potrebbe cambiare del tutto, ma persiste nella mia mente l’idea di far entrare il pubblico in sala con le audioguide dei musei che mi descrivono.

Com’è il tuo rapporto con quello che produci? Sei sempre soddisfatto? Hai un rapporto critico con te stesso?

Ho un rapporto di autocritica ferocissimo e questo, di conseguenza, fa sì che io mi ritenga sempre soddisfatto dei risultati che otteniamo. Sono abbastanza ossessionato dall’avere il controllo sul mio lavoro, mi riterrei un perfezionista. Penso che la soddisfazione arrivi anche dai riconoscimenti. Tra gli spettacoli che abbiamo fatto, due di questi hanno vinto la biennale di Venezia come miglior spettacolo; in particolare il primo spettacolo ha vinto tantissimi premi, ha girato tutta Italia. Queste sono soddisfazioni un po’ più concrete, sono grandi gratificazioni.

Quando produci hai bisogno di un ambiente particolare? Quando pensi hai qualche rito?

No, io non credo di seguire un metodo. Il suggerimento che sento di dare a coloro che fanno teatro e mi chiedono: “Che metodo usi?”, è quello di non affezionarsi mai ai metodi. Il mio è un processo creativo molto disordinato, dopotutto sono un folle procrastinatore, per cui la mia testa si attiva soltanto all’arrivo delle scadenze. Quando devo fare uno spettacolo per l’anno successivo sono capace di passare nove mesi a pensarci in maniera molto vaga fino al decimo mese, quando scatta qualcosa. Arriva all’improvviso un momento in cui mi percepisco “più intelligente”, come se si fosse attivata una connessione neurale dovuta all’ansia da prestazione, data dal fatto che dovrò andare in scena. Il processo creativo è
abbastanza caotico finché non arrivo sul palco a provare con gli attori, dove chiaramente c’è bisogno di un rigore maggiore. Per il processo di scrittura, invece, l’ispirazione arriva improvvisamente.

Com’è il suo rapporto con Firenze e con i teatri fiorentini?

È un rapporto molto recente, che inizialmente non c’era. Quando il Teatro della Toscana di Firenze ha coprodotto lo spettacolo Cirano ci siamo trovati benissimo e, da questo momento, si è creata una connessione tra Roma e Firenze. Sono prodotto dal Teatro di Roma, il Teatro Vascello, dalla compagnia De Filippo e, in questo caso, per il Cirano anche dal Teatro della Pergola. Dobbiamo ancora debuttare ma sono fiducioso, anche perché questa settimana abbiamo fatto numerosissimi incontri con scuole di teatro, licei, e mi sembrano andati molto bene. I ragazzi si sono immediatamente incuriositi dalla materia, per questo penso che verranno molti ragazzi allo spettacolo. Per me è sempre un piacere accogliere una platea così mista, con i giovani che si mescolano tra un pubblico di tutte le età. Sono abbastanza contrario alle matinée, fare gli spettacoli mattutini apposta per i ragazzi mi sembra sbagliato. A me piace che i ragazzi assistano ad una replica serale, come vengono gli adulti a vedere il teatro, e che non sia un evento riservato solo a loro. Così facendo si rischia di essere visti come una cosa “fatta apposta per”, come se il teatro fosse solamente una gita scolastica. In queste circostanze anche gli attori stessi tendono a modificare l’opera, perché sanno di trovarsi davanti a un pubblico di soli ragazzi, portati a teatro dalla scuola. É un’energia totalmente diversa quella delle repliche serali, quindi è giusto che i ragazzi vedano in teatro nelle sue reali vesti.

Cosa direbbe alle future generazioni di registi?

Temo di essere particolarmente retorico, perché questa è una domanda che la retorica la porta fuori. Direi che la qualità più importante che devono trovare i futuri registi è quella di osare, di essere assolutamente allineati con le loro idee. Per coloro che decidono di fare questo mestiere è importante conservare quella passione che li animava quando hanno intrapreso questa strada. Sono contrario al teatro quando viene fatto in maniera impiegatizia, quando diventa un esercizio di pura tecnica, ridotto a un lavoro d’ufficio. Una delle riflessioni più importanti è cercare di capire tutte le volte se si sta osando. Ho un gusto personale per la provocazione, ma questo non significa per forza dover essere provocatori o scandalosi, ma significa mettersi in difficoltà, creando continuamente nuove sfide per sé stessi, non accettando mai le soluzioni più facili.

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