Siamo nel tumultuoso 1943, quando grava sull’umanità il fardello della Seconda Guerra Mondiale e, all’insaputa o nell’indifferenza di molti, della Shoah.

La Danimarca, sebbene occupata dalla Germania dal 1940, rigetta l’ideologia nazista grazie al senso, radicato nella società tutta, di identità tra cittadino danese e valori democratici, di apertura al diverso.

Il 28 settembre il diplomatico tedesco, membro dell’ambasciata tedesca a Copenhagen, Georg Ferdinand Duckwitz viene a sapere del progetto di deportazione dei circa settemila ebrei danesi tra il 1° e il 2 ottobre, quindi si adopera per informare e mettere in salvo la comunità ebraica.

In questo periodo dell’anno, con la collaborazione di molta parte della popolazione danese, quasi tutti gli ebrei di Danimarca stavano trovando rifugio nella neutrale Svezia.

E l’eccezionalità dell’evento non si limita alla coesione dei danesi nel soccorso e nella solidarietà agli ebrei, bensì tocca la redenzione di un convinto hitleriano di fronte all’orrore del raid nazista, con poderose (sebbene spesso dimenticate) implicazioni etiche, storiche, umane, dato che migliaia di vite furono risparmiate.

Tale orrore consiste nell’ingiustificabile violenza tra esseri umani, persino su inermi, e ci riguarda ancora oggi.

Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, edito dalla casa editrice Le Lettere con prefazione di Moni Ovadia, fornisce quindi strumenti per la formazione di esseri pensanti, che al tornaconto personale, a un placido e pericoloso consenso verso qualsiasi assurdità imposta dal più forte, antepongono la dignità umana di ciascuno e l’integrità morale, in cammino per comprendere l’interdipendenza tra l’agire umano e l’incalzante susseguirsi degli eventi.

Fonti, testimonianze, documenti sottoposti ad analisi scientifica arricchiscono le riflessioni proposte e dimostrano che, sebbene con sacrifici, ognuno può contribuire alla realizzazione di un mondo più vivibile.

Questa premessa non esaurisce la profondità etica, l’approfondimento, degno dei più curiosi cultori della Storia, presenti nel saggio; esso infatti si articola in cinque capitoli che vanno dall’occupazione alla liberazione della Danimarca, dalle modalità, dai protagonisti del salvataggio degli ebrei danesi al destino dei circa cinquecento deportati che non poterono salvarsi, alla conclusiva riflessione morale su quanto avvenuto a dispetto dell’Olocausto e quanto può avvenire in contrasto all’ingiustizia di ogni giorno.

Ma con tale introduzione si riporta l’intervista che l’autore ci ha gentilmente concesso, presentazione dello storico e assaggio della portata del suo lavoro riguardo alle questioni, più o meno oscure, che questa sezione di storia ci pone.

Qual è stata la sua formazione e come l’ha supportata nello scrivere il saggio?

«Prima della laurea triennale in Filosofia con una tesi sul processo a Eichmann riportato dalla filosofa Hannah Arendt, nel 2015, partecipai a una conferenza di Claudio Fava che ricordava Peppino Impastato e come ci si possa ribellare al male, anche quando sembra invincibile. Fece l’esempio di re Cristiano X di Danimarca che indossò la stella gialla in segno di solidarietà agli ebrei. Rimasi molto colpito dalla storia, e dovendo passare alla magistrale ho scelto la facoltà di Storia, di cui sono appassionato dalle elementari. Anche se scoprii che era una leggenda quella su Cristiano X. Questi infatti nel settembre del 1941 dichiarò al primo ministro ad interim, Vilhelm Buhl, che se i nazisti occupanti avessero richiesto la consegna degli ebrei, la cosa giusta da fare sarebbe stata rifiutare tali richieste e indossare la stella gialla. Buhl non si tenne la cosa per sé e così nacque la leggenda, spesso ancora raccontata come vera.

L’impianto filosofico mi ha aiutato nella parte che riguarda l’etica alla fine del libro, ma ho trovato più difficile fare ricerca negli archivi per la formazione inadatta. Dopo la laurea magistrale ho continuato a scrivere il libro, uscito nel 2022. Nel frattempo ho conseguito un diploma al corso di Didattica della Shoah e uno di perfezionamento presso lo Yad Vashem, il principale museo sulla memoria della Shoah; ora sto continuando a studiare per un master di secondo livello e un dottorato di ricerca».

Come si reperiscono informazioni attraverso analisi scientifica di documenti, fonti, testimonianze, e come è stato questo lavoro?

«Inizialmente è stato faticoso perché non ero abituato, poi mi sono appassionato. Bisogna apprendere metodi scientifici nuovi rispetto a quelli di filosofia, come visitare archivi, rivolgersi a contatti utili…».

Cosa le interessa della storia che racconta?

«Il fatto che non fosse stata raccontata e che dal re alle persone più umili si fosse deciso di salvare gli ebrei. Hanno basato la loro società, fin dalla metà dell’800, su accettazione e democrazia, mentre negli Stati Uniti c’era ancora la schiavitù. Studiando la storia danese si è venuti a sapere che mentre a Venezia fu costruito il primo ghetto nel 1516, quando il progetto fu proposto in Danimarca venne subito respinto; gli ebrei godevano di grande emancipazione, specie con una legge del 1814 con cui vennero accordate le libertà di commercio e circolazione; nel 1849, con la nascita della Monarchia Parlamentare e di una Costituzione liberale, fu concesso il suffragio censitario anche per gli ebrei maschi. Anche riguardo all’emancipazione femminile, la Danimarca era avanti, istituendo il diritto di voto delle donne nel 1915; mentre Hitler ascendeva con la sua politica di odio nel 1933, in Danimarca si festeggiava per volere del re il centenario della fondazione della Sinagoga di Copenhagen. Dopo la Notte dei cristalli, in Danimarca entrò in vigore una legge che proibiva manifestazioni di intolleranza per discriminazioni religiose o etniche. Secondo la stessa Arendt il caso danese è unico e si dovrebbe studiare come esempio in ogni scuola. Complice l’indifferenza della società e nonostante sia condannato come crimine internazionale dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il genocidio continua, pensiamo a quello di Srebrenica (1995) e Ruanda (1994); quindi ritengo importante studiare questa sezione della storia che dimostra l’evitabilità della Shoah, sterminio assurdo e sistematico quanto perentorio monito alla coscienza. Davanti a resistenze, i nazisti rinunciavano alle deportazioni, come dimostra sia il salvataggio degli ebrei in Bulgaria che in Danimarca».

Quali messaggi del saggio ritiene principali e chi vogliono raggiungere?

«Il libro è rivolto a tutti ed è scritto in modo scorrevole e accessibile; ricorda l’importanza della resistenza non violenta, contro l’intolleranza che invece germoglia ancora nella nostra società. La resistenza danese è esemplare, anche se chi la realizzò non si riteneva eroico, ma esecutore della normalità del bene. Solo ventidue donne e uomini danesi hanno accettato il titolo di Giusti tra le Nazioni per i loro sforzi, altri non fecero pervenire il nome: aiutare gli ebrei era naturale come soccorrere un vicino in pericolo. Inoltre, ritengo di grande spessore la figura di Duckwitz, nazista della prima ora. Dal ’33 al ’35 lavorò attivamente nell’ufficio esteri del partito nazista, cercando poi di allontanarsene nonostante fosse rischioso. Dunque nel ’39 iniziò a lavorare nell’ambasciata tedesca in Danimarca, instaurando ottimi rapporti col Ministro degli Esteri del Terzo Reich. Quando scoprì il progetto di deportazione degli ebrei, ebbe così un moto di coscienza. Prima chiese alla Svezia di accogliere gli ebrei, anche apolidi, spesso invece deportati senza scrupoli, ed infine avvisò i membri del partito socialdemocratico in merito al giorno in cui sarebbe avvenuto il raid nazista. In questo modo il 2 ottobre 1943, 80 anni fa, si verificò il più fallimentare raid nazista nella storia della Shoah.

Senza un personaggio di grande caratura politica come Duckwitz che aveva accesso a importanti informazioni, il salvataggio non sarebbe stato possibile. Partecipò nel ’44 alla congiura per assassinare Hitler, che fallì, ma se fosse riuscita, sarebbe diventato plenipotenziario della Danimarca e avrebbe trattato la resa con gli Alleati. In Italia è mancata la figura di un politico fascista con accesso alle decisioni politiche che abbia avvertito del pericolo. È quindi una figura unica e emblematica, purtroppo dimenticata ovunque».

Quali sono le ragioni del silenzio su Duckwitz?

«Secondo me scaturisce dal suo essere controverso, nazista iscritto al partito dall’inizio alla fine, sebbene, come ne dimostrarono i gesti, non antisemita. Ci fu titubanza nell’insignirlo del titolo di Giusto tra le Nazioni, si tende a ometterlo quando si ricorda il salvataggio degli ebrei in Danimarca. È condivisibile il contrasto al nazismo, ma penso che la sua storia vada raccontata proprio perché permise il salvataggio degli ebrei pur essendo un rilevante politico nazista. Ciò dimostra che i nazisti potevano infrangere la fedeltà al partito, diversamente da quanto sostennero molti nazisti processati, per cui era ineluttabile l’ubbidienza agli ordini».

La normalità del bene, il male, sono secondo lei riconducibili al contesto di ideali in cui si vive, oppure anche a senso critico e percezione della dignità umana assoluti? E come si collega ciò al caso danese?

«Il contesto in cui si vive è fondamentale: è chiaro che i ragazzi dell’Opera Nazionale Balilla, ad esempio, ricevevano un certo indottrinamento con certe conseguenze, ma una persona adulta con una buona formazione ha coscienza critica, la capacità di giudicare giusto o meno qualcosa, indipendentemente dagli usi promossi dalle circostanze. La società danese, per le sue origini di saldi valori umani, si identificava nella democrazia contrapposta alla tirannia della dottrina nazista e comunista. Ad esempio, i danesi non partecipavano alle proiezioni di film antisemiti, avendo una propria coscienza critica: è quindi evidente la necessità della formazione contro indifferenza e assoggettamento».

Avverte che il clima odierno sia diverso da quello danese di allora. Perché siamo in questa situazione a suo avviso?

«Sono tanti i fattori, ma dal punto di vista storico e culturale, l’Italia, nonostante il riscatto della Resistenza, si è macchiata di (e non ha mai veramente fatto i conti con) omicidi e del genocidio degli ebrei; i criminali fascisti non sono stati puniti per l’amnistia Togliatti, dunque dilaga l’idea che i tedeschi fossero i cattivi, gli italiani brava gente, che in fondo il fascismo fosse una politica benefica. Non c’è un museo del Partito Fascista Italiano per la memoria dei suoi delitti, ma ci sono diversi movimenti di estrema destra eleggibili che ad esso si rifanno. Ancora si celebra nostalgicamente il passato colonialistico in Etiopia, nonostante allora siano state commesse orrende barbarie. Viviamo quindi nei rimasugli della cultura fascista, e si sente dire che bisogna preservare l’etnia italiana da quella dei migranti, che l’italiano è tale da ottomila anni… ma il nostro è un paese cresciuto con i flussi migratori, unito con la forza solo nel 1861».

Como pensa che sia possibile un miglioramento, anche per persone che hanno calpestato la dignità umana, macchiandosi di repressioni e omertà?

«Bisogna rinforzare la cultura della non violenza. Penso sia difficile ragionare con persone radicate in assurde ideologie, ma l’Italia dovrebbe mettere al primo posto dell’agenda politica la Scuola: il nostro Paese investe in essa meno degli altri paesi europei, Grecia compresa, nonostante le condizioni in cui riversa. A scuola si dovrebbero promuovere i valori umani tutelati dalla nostra Costituzione, piuttosto che riempire gli studenti di nozioni, le quali andranno per la maggior parte dimenticate. Sarebbe importante anche istituire un museo dedicato ai crimini commessi durante il Fascismo, così da rifletterci. Ma è un processo difficile per il disinteresse e l’abbandono generali».

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