Il 21 marzo avrà inizio il Florence Korea Film Fest, la più celebre rassegna cinematografica dedicata al cinema sudcoreano in Italia. Nato nel 2003 da un’idea dall’Associazione Culturale fiorentina Taegukgi – Toscana Korea Association, il Festival ha l’obbiettivo di promuovere la cultura coreana in Italia sfruttando lo strumento del grande schermo (e non solo). La ventiduesima edizione del Festival si svolgerà principalmente al cinema La Compagnia ma ci saranno eventi che si svolgeranno in altri luoghi come, ad esempio, il Teatro Verdi. Saranno tanti e variegati gli ospiti presenti nella culla del Rinascimento per presentare il cinema e la cultura coreana durante eventi, concerti e masterclass. Uno dei momenti più attesi è sicuramente la masterclass che si svolgerà il 23 marzo e che vedrà la partecipazione del regista Kim-Jee woon e dell’attore Song-Kang ho. L’incontro verrà presentato, oltre che da Marco Luceri, Luigi Nepi e Riccardo Gelli (direttore del FKFF 2024), da Caterina Liverani (critica cinematografica e curatrice del catalogo FKFF 2024) che ci ha gentilmente concesso un’intervista.

Quando è nata la sua passione per il cinema? Come è diventata più di un semplice passatempo?

La mia passione per il cinema nasce da ragazza. I miei non volevano che io guardassi i cartoni in televisione dato che, essendocene solo una in casa, volevano guardarla loro. Allora mi dicevano: “Guardiamo dei film insieme”. Sono stata dunque educata fin da piccola a vedere tanti film in un periodo in cui non c’era troppa rigidità sul fatto di far vedere a un bambino programmi che oggi definiremmo non adatti. La passione per i film è poi cresciuta insieme a quella per la lettura, due modi diversi per evadere dalla realtà.
All’università ho scelto una facoltà che adesso non c’è più, perché inglobata dal Dams, ossia Lettere con l’indirizzo “musica e spettacolo”. Potevi comporti il piano di studio in base ai tuoi interessi e io l’ho riempito di esami legati al cinema imparando che la mia passione aveva un linguaggio molto codificato come una materia scientifica. Lo studio della grammatica del cinema, il nome delle varie inquadrature, il funzionamento del montaggio, lo sviluppo della narrativa dalle origini ad oggi: la mia passione era diventata la cosa per cui un giorno mi svegliavo con l’ansia e mi recavo col libretto universitario in mano a svolgere un esame. Non ho mai preso dei voti altissimi a storia del cinema, era una delle materie più complicate, ma nonostante questo avrei voluto laurearmi in quell’ambito. Tuttavia, quando chiesi al professore lui mi disse che aveva troppi studenti e che avrei dovuto laurearmi in storia del teatro, purtroppo il cinema rimase un passatempo.
A questo punto non pensavo di finire a fare la critica cinematografica, la mia paura era quella di perdere quella parte di divertimento e di spontaneità nel vedere un film, diventare più cinica. Per fortuna così non è stato. Uno dei primi lavori che ho fatto è stato occuparmi di notizie su Firenze per un portale che parlava proprio di cinema.
Alla fine dunque non sono finita a fare una cosa che non avrei mai pensato di fare, ma è il modo in cui è avvenuto tutto questo che mi ha sorpreso, tenendo conto anche del discorso dell’Asia.

E cos’è che l’ha attratta inizialmente verso il cinema coreano?

Niente. Inizialmente non mi piaceva perché non ero mai stata una persona particolarmente interessata all’Oriente. Mi piaceva molto il cinema di Hollywood, il cinema d’intrattenimento e non volevo addentrarmi in cinematografie troppo emergenti, al massimo mi era capitato di approcciarmi al cinema iraniano che, nonostante i pregiudizi che avevo, mi era molto piaciuto.
Sapevo che a Firenze c’era da più di vent’anni questo Festival, un Festival del cinema coreano, al quale ero andata qualche volta come spettatrice. Nel 2015 un mio collega che si occupava a quel tempo della programmazione del Festival mi scrive dicendomi che lui non ci potrà essere per due giorni e che ha bisogno di qualcuno per sostituirlo per due interviste proprio a inizio rassegna. Io accetto, vado alla sede del Festival, conosco direttore e vicedirettrice e loro mi consegnano un pacco di DVD. Io in realtà non dovevo guardarli tutti ma dato che sono molto ansiosa, mi metto a guardarli e alla fine ho pensato che fossero proprio dei bei film. Ho visto in questo cinema, malgrado le grandi contraddizioni della Corea del Sud, un’imponente libertà di espressione. Però io dovevo fare solo le interviste, ed ero terrorizzata perché malgrado fossi grande non avevo mai parlato in pubblico o intervistato una persona che non che non parlava la mia lingua. Tuttavia, quando ho preso in mano il microfono mi sono tranquillizzata e tutto è risultato incredibilmente congeniale. La mia interprete quell’anno si chiamava Anna Mazzonetto, una ragazza che ha un canale molto seguito chiamato Persi in Corea, e, essendo anche per lei la prima esperienza, ci siamo aiutate a vicenda.
Da lì il mio lavoro è un po’cambiato, ho cercato di non fare più la critica classica, essere la persona che va in sala a vedere un film e poi scrive se è bello o no. Preferisco piuttosto cercare di capire le intenzioni dell’autore, concentrarmi sul messaggio senza limitarsi a dire se il film di un regista è più bello o più brutto dei precedenti.
Il mio interesse è proprio quindi legato al cinema, alla forma, a come questi registi lavorano, alla contraddizione della libertà espressiva e al fatto che comunque ci sia sempre una soglia molto alta di argomenti che è difficile trattare; nel cinema coreano è molto delicato, ad esempio, il tema della divisone della Corea, i film che ne parlano testimoniano una ferita ancora aperta.
Dunque, attraverso il cinema, posso dire di aver iniziato a conoscere il paese.

Qual è oggi il suo ruolo all’interno del Festival? E qual è stato il momento più gratificante o memorabile che ha vissuto in prima persona?

Attualmente sono una collaboratrice, mi occupo di analizzare e scrivere una parte del catalogo che ogni anno viene realizzato per il Festival. Il catalogo è diviso in sezioni ed io di solito io mi occupo della sezione dei film in concorso, che si chiamano orizzonti, del film d’apertura e del film di chiusura che non sono in concorso, e da qualche anno mi occupo anche della retrospettiva sugli ospiti d’onore. Sono dunque una sorta di consulente critica, non ho potere decisionale su quale film prendere e quale non prendere, ma una volta che il range di film è stato scelto, cerco di promuoverlo al meglio. Oltre a vedere tutti questi film e presentarli in sala, mi occupo dunque anche di fare delle interviste durante le masterclass con gli ospiti che vengono invitati al Festival.
La parte in cui posso intervistare è quella che mi piace di più perché ritorna quella curiosità che ha mosso il mio interesse per tanti anni. Scrivere le domande è molto difficile ma al tempo stesso è il momento in cui mi sento più realizzata.
Un momento particolare è stato nel 2022, dopo che il Festival si era svolto per due anni con le limitazioni portate dalla pandemia, come il coprifuoco, i posti contingentati e l’assenza di ospiti internazionali. Quell’anno ritornarono gli ospiti e, grazie a un gran lavoro di diplomazia, siamo riusciti a far venire Lee Jung-jae, l’attore protagonista di Squid game, la serie uscita su Netflix che aveva caratterizzato l’autunno precedente. Nonostante le minori restrizioni, la situazione era ancora molto precaria. Dopo l’atterraggio all’aeroporto lo hanno portato alla Synlab a fare il tampone, se fosse risultato positivo avrebbe fatto saltare tutti i piani. Dopo aver constatato la negatività dell’ospite, la conferenza stampa che abbiamo fatto la mattina in un ristorante in piazza della Signoria è stato un momento molto bello e gratificante. Eravamo in una stanza dove saremmo stati massimo 35 persone, tutti chiaramente con la mascherina, tranne me e lui, perché dovevamo parlare. Dopo due anni di niente, di videoconferenze, di saluti degli ospiti registrati, è stato veramente bello vedere la contentezza nelle persone davanti al ritorno di un grande ospite. Una persona carina, garbata, che, essendo Ambassador di Gucci, aveva addosso solo vestiti della casa di moda italiana. Nonostante Lee Jung-jae lavori da quando aveva 18 anni, ha raggiunto il grande successo dopo diversi anni di carriera proprio grazie a Squid game.

Nel corso degli anni com’è cambiato il Florence Korea Film Festival? E cosa c’è da aspettarsi dall’edizione di quest’anno?

Io ho cominciato nel 2015, in un momento in cui si stava svegliando un grandissimo interesse per la Corea. Anno dopo anno ho visto infatti aumentare l’affluenza delle persone fino a vedere la sala letteralmente scoppiare l’anno scorso quando abbiamo avuto ospite Bong Joon-ho, il regista premio Oscar di Parasite. C’erano addirittura delle persone che erano venute dalla Corea per vedere lui in Italia. Erano presenti Dario Nardella ed Eugenio Giani, insomma, così tanta gente non l’avevo mai vista!
Il Festival negli anni è proprio cresciuto, testimoniando il fenomeno dell’Hallyu, ossia della diffusione della cultura di massa sudcoreana verificatosi a partire dagli Anni Novanta che ha fatto diventare la Corea, nonostante in certi casi l’eccessiva mitizzazione, un paese che molti ragazzi vogliono visitare
Quest’anno ci sarà un programma veramente ricco anche per quello che riguarda i generi. Di solito il cinema coreano, e quello asiatico in generale, viene considerato un cinema o molto violento o molto noioso. In realtà non è così, quest’anno, ad esempio, ci sono delle commedie romantiche, ci sono film a tematica LGBT, film tratti da romanzi di formazione, film noir coreani con ascendenze classiche: insomma, una grande varietà. Ci saranno molti ospiti importanti come l’illustratore Jang-Boo kyu, autore di vari webtoon (fumetti che si possono fruire soltanto on-line) che effettuerà una masterclass con la Nemo Academy di Firenze.
Ci sarà poi per la prima volta come ospite un critico cinematografico coreano, Jeon Chanil, in occasione di una retrospettiva sul cinema coreano degli anni 60’ per far capire al pubblico che il cinema coreano non è nato con Parasite, ma è una cinematografia che, come quella americana o italiana, ha alle spalle tanti anni di gloriosa storia. Ci sarà inoltre un incontro molto importante con Jung-Jae il, il musicista che ha scritto la colonna sonora di Squid game e di Parasite, che effettuerà un concerto al Teatro Verdi il 30 di Marzo.
Per quello che riguarda la mia parte, farò, insieme ad altri colleghi, due masterclass. Una sarà con il regista Kim-Jee woon e con l’attore Song-Kang ho, colui che più di tutti rappresenta l’esplosione della Corea attraverso il cinema. Insieme presenteranno il loro ultimo film, Cobweb.
Un altro protagonista molto importante sarà l’attore Lee-Byung hun che è stato invece il primo divo coreano a essere esportato all’estero. Campione di arti marziali, grazie alla sua eleganza e alla bellezza in grado di attirare il cinema occidentale, è arrivato a fare diversi film a Hollywood e a presentare un premio agli Oscar. Può essere noto al pubblico italiano per due drammi molto conosciuti che ha fatto, il primo è il drama storico Mister Sunshine, l’altro è Squid Game dove interpreta la parte del FrontMan, personaggio che probabilmente sarà al centro delle dinamiche della nuova stagione. I tanti ospiti presenti sono, secondo me, la vera forza del Festival.

Song-Kang ho, ospite al FKFF 2024, ha raggiunto il successo internazionale nel 2019 con Parasite, è questo il film coreano che ha avuto il maggiore impatto internazionale?

Assolutamente sì, anche se ci sono tantissimi film coreani bellissimi venuti anche prima di Parasite. Il regista, Bong Joon-ho, grande cinefilo e appassionato del cinema italiano, ha creato questa sorta di “macchina perfetta”, in grado di abbattere una serie di barriere ed arrivare fino ad Hollywood mantenendo comunque una forte identità.
Parasite è fondamentalmente una commedia nera, quindi si ride. E non c’è nulla che il pubblico apprezza più di questo, ma non c’è solo questo. C’è un’estetica pazzesca: architetture studiate, colori saturi, un uso del montaggio che, per quanto perfetto, sembra quasi elaborato da un’intelligenza artificiale. C’è una storia di denuncia sociale, si vedono persone poverissime che passano dal vivere come dei parassiti in uno scantinato a stare in una bellissima villa. Dunque, una grande riflessione sulla disparità sociale, problema non soltanto della Corea ma di qualsiasi nazione occidentale, mantenendo però un forte legame con l’identità coreana.
Parasite non è il primo film coreano che fa ridere è però il primo film coreano che fa ridere, che presenta una serie di caratteristiche come un’estetica straordinaria e che strizza l’occhio al cinema commerciale rimanendo al tempo stesso profondamente autoriale. Grazie al film di Bong-Joon ho il pubblico occidentale ha capito che il cinema coreano non era soltanto violento o lento e noioso, si è capito che c’era molto di più.
Sarà difficile per un altro film completamente coreano avere questo successo, adesso c’è Past Lives che però è un film girato negli Stati Uniti da una regista coreana naturalizzata canadese; invece, Parasite era un prodotto completamente coreano.

Che consiglio dareste a coloro che si vogliono avvicinare al cinema coreano senza avere esperienza in materia?

Quest’anno al Festival c’è un programma talmente divertente e variegato che consiglio di venire alla compagnia durante il Festival, a seconda dei propri gusti ciascuno può trovare un prodotto di suo gradimento. L’aspetto e il consiglio principale è dunque quello di vedere un film in sala: è un’esperienza molto diversa dal vedere un film sul PC o sul telefono, è un’esperienza molto più affascinante.
Se invece qualcuno non ha molta voglia di venire al cinema ma vuole comunque saperne di più sulla Corea, Netflix e le altre piattaforme video vengono in aiuto. Netflix ha una libreria pazzesca di contenuti coreani, non soltanto cinematografici, ma anche reality e documentari come Yellow door, un documentario, realizzato dal regista di Parasite, che racconta l’ascesa del cinema coreano. Ci sono anche molti drama di diverse epoche e in continuo aumento. Alcuni sono ambientati nelle scuole come Non siamo più vivi, in cui gli alunni di un liceo diventano tutti zombi: horror ma anche tanto umorismo. Altri invece sono molto romantici e presentano temi legati alla disparità, altri ancora trattano temi come la storia coreana, il mondo del lavoro, del mobbing o del bullismo come, ad esempio, The Glory, una serie tv su una ragazza bullizzata a scuola che decide di farsi giustizia da sola.
Insomma, direi che Netflix e le altre piattaforme siano un buon modo di cominciare.
Se qualcuno è invece appassionato di fumetti, può leggersi i webtoon; e anche il K-pop, con le strabilianti esibizioni con coreografie stupende, rappresenta un modo per avvicinarsi alla cultura coreana. Sulla rete ci sono inoltre tantissimi influencer che sono specializzati in Corea, in letteratura coreana o in cinema coreano.
Insomma, con gli strumenti di oggi è veramente semplice avvicinarsi a una nuova cultura.

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