“Di fronte al proposito del nuovo regime jugoslavo di sovranità sui territori giuliani, l’essere italiano diveniva un ostacolo, se non una colpa”.[1] Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso della cerimonia tenutasi oggi al Quirinale per la giornata della memoria delle foibe, ha voluto ribadire ancora una volta – come sempre in passato – che questa tragedia non può essere sminuita né strumentalizzata. Il discorso del presidente parte da una analisi storica per arrivare a una condanna senza appello non solo dei vari “revisionismi” ma anche del gesto vile di vandalizzazione compiuto nei giorni scorsi alla foiba di Basovizza. Questi i passaggi più importanti del discorso presidenziale:
“Ci incontriamo per rinnovare la Giornata del Ricordo: occasione solenne, che invita a riflettere su pagine buie del nostro passato, per conservare e rinnovare la memoria delle sofferenze degli italiani d’Istria, di Fiume, della Dalmazia, in un periodo tragicamente tormentato della storia d’Europa.
In quella zona a Oriente, così peculiare, dove, a fasi alterne, si erano incontrate, convivendo, comunità italiane, slave, tedesche e di tante altre provenienze, la violenza prese il sopravvento, trasformandola in una terra di sofferenza (…)
Perché ancor più disumani furono gli eventi del secondo conflitto mondiale, dove allo scontro tra eserciti di nazioni che si erano dichiarate nemiche, si sovrappose il virus micidiale delle ideologie totalitarie, della sopraffazione etnica, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, che si accanì con crudeltà contro le popolazioni civili, specialmente contro i gruppi che venivano definiti minoranze. E, nelle zone del confine orientale, dopo l’oppressione fascista, responsabile di una politica duramente segregazionista nei confronti delle popolazioni slave, e la barbara occupazione nazista, si instaurò la dittatura comunista di Tito, inaugurando una spietata stagione di violenza contro gli italiani residenti in quelle zone. Di quella stagione, contrassegnata da una lunga teoria di uccisioni, arresti, torture, saccheggi, sparizioni, le Foibe restano il simbolo più tetro.
E nessuna squallida provocazione può ridurne ricordo e dura condanna.
Oltre a crudeli, inaccettabili casi di giustizia sommaria e di vendette contro esponenti del deposto regime fascista, la furia omicida dei comunisti jugoslavi si accanì su impiegati, intellettuali, famiglie, sacerdoti, anche su antifascisti, su compagni di ideologia, colpevoli soltanto di esigere rispetto nei confronti della identità delle proprie comunità.
Di fronte al proposito del nuovo regime jugoslavo di sovranità sui territori giuliani, l’essere italiano diveniva un ostacolo, se non una colpa.
Ben presto, sotto minaccia e dopo una seconda ondata di violenze, i nostri concittadini di Istria, Dalmazia, Fiume, furono messi di fronte al drammatico dilemma: assimilarsi, disconoscendo le proprie radici, la lingua, i costumi, la religione, la cultura. Oppure andare via, perdendo beni, casa, lavoro, le terre in cui erano nati.
In grande maggioranza scelsero di non rinunciare alla loro italianità e, di fatto, alle libertà, di pensiero, di culto, di parola. In trecentomila – uomini, donne, anziani, bambini – radunate poche cose, presero la triste via dell’esodo. Come abbiamo ascoltato dalle intense letture tratte dal libro di Greta Sclaunich, spesso l’accoglienza in Italia non fu quella che sarebbe stato doveroso assicurare.”
Parole dunque chiare e inequivocabili, quelle del capo dello stato: senza nascondere le colpe e le responsabilità di nessuno, ma anche senza accettare che le precedenti violenze fasciste e naziste possano diventare un alibi che giustifichi quanto accaduto ai nostri connazionali giuliano-dalmati. Chiaro inoltre come la vera “colpa” di chi perse la vita nelle foibe non fu solo e tanto “politica”. Bastava il fatto di essere italiano, tanto che nelle foibe finirono anche persone che non solo non avevano avuto nulla a che vedere con il fascismo, ma addirittura lo avevano avversato.
Quando parliamo di “Foibe” ci riferiamo a profonde spaccature naturali nelle montagne del Carso (Friuli Venezia Giulia), che divennero il tetro scenario di una terribile tragedia: migliaia di uomini, donne e bambini trovarono la morte infondo a questi dirupi, uccisi dalla furia devastatrice di uomini senza scrupoli.
La loro condanna a morte ebbe inizio con la fine della prima guerra mondiale, quando i territori di Friuli Venezia Giulia, Dalmazia e Istria furono suddivisi tra Italia e Jugoslavia, sottoponendo questi popoli ad un duro processo di “italianizzazione” sotto il regime fascista, che contribuì ad inasprire ulteriormente i rapporti tra i due popoli.
Quando Hitler, durante la seconda guerra mondiale, invase il territorio jugoslavo e lo spartì tra Italia e Germania, le tensioni arrivarono all’apice.
Quando nel 1943 l’Italia firmò l’Armistizio con gli Alleati, essendosi creato un vuoto di potere, il generale Tito con i suoi soldati riuscì ad entrare in Italia e a prendersi la sua rivincita: iniziò così uno sterminio di massa che vide coinvolti non solo i fascisti che da anni ormai il generale combatteva, ma uomini appartenenti a qualsiasi schieramento politico contrario a quello comunista. Usarono metodi barbari e brutali: le persone venivano deportate e lasciate morire di fame e di freddo oppure lanciate spesso ancora in vita nelle foibe, dove trovavano la morte dopo ore di agonia.
Uccisioni e deportazioni continuarono anche dopo la fine della guerra, tra il 1945 e il 1947, quando a causa di una nuova spartizione di confini trecentocinquantamila cittadini divennero degli esuli e furono o giustiziati o costretti a scappare senza ricevere aiuto dal governo italiano.
Tutt’oggi non si possono quantificare le vittime, che furono comunque alcune migliaia, e solo recentemente si è iniziato a parlare di questi crimini taciuti e nascosti per anni; forse ci stiamo avvicinando sempre di più al raggiungimento di una giustizia anche per loro, anche se sorge spontanea la domanda : ci potrà mai essere giustizia per un bambino che viene lasciato morire in fondo ad un dirupo? E a proposito di bambini: la rai questa sera in prima serata trasmette il film la bambina con la valigia, film ispirato alla vera storia di Egea Haffner, una bambina che nel 1945 aveva solo 4 anni e fu costretta a vivere il dramma dell’esilio, diventandone in un certo senso il simbolo: una sua foto con un valigia su cui c’era scritto “esule Giuliana 30001” divenne “virale” già all’epoca. In una intervista all’edizione torinese del Corriere della sera Egea ha ricordato quei momenti terribili: “ Era il 6 luglio del 1946. Ricordo bene l’attimo in cui mi venne scattata quella fotografia. Avevo indossato il vestito della domenica, mi avevano fatto i boccoli e zio Alfonso mi aveva consegnato la famosa valigetta con su scritto: 30.001. Pola, la mia città, contava 30mila abitanti. Zio Alfonso aveva già capito che saremmo andati via tutti da quel luogo”; e ancora a proposito del padre vittima delle stragi: “Conservo poche immagini. Ricordo che durante la guerra correvamo insieme verso il rifugio. Lui mi prendeva sottobraccio e ho ben presente il suo profumo, l’acqua di colonia che usava. Il 4 maggio del ’45 la polizia di Tito arrivò a casa. Lui si mise una sciarpa e uscì. Rividero quella sciarpa giorni dopo, al collo di un titino. Mio padre, Kurt Haffner, aveva solo 26 anni quando venne ucciso”.[2]
Foto: un momento della cerimonia al Quirinale (immagine scaricata dal sito istituzionale)
[1] Fonte: https://www.quirinale.it/elementi/127384. Tutte le citazioni del discorso del Presidente, anche quelle che seguiranno, vengono da questa fonte.
[2] Fonte: https://torino.corriere.it/notizie/cultura/25_febbraio_07/egea-haffner-la-bambina-con-la-valigia-divenuta-simbolo-dell-esodo-giuliano-dalmata-f2e5b539-9826-4e4e-a508-878bd8b4bxlk.shtml?refresh_ce