Il calcio sta perdendo parte del suo appeal? Riflessioni interessanti e ben documentate di un esperto

Le soste per le Nazionali nel calcio sono viste dai più come delle grandi perdite di tempo, soprattutto la fatidica pausa di fine marzo, che, regolare come il battito di un metronomo, cade sempre nel momento clou della stagione presentandosi al tifoso come una nuvola fantozziana che rovina il weekend, ma non solo il suo. Gli allenatori delle squadre di club guardano le partite sperando che i proprio giocatori non si facciano male e che magari i commissari tecnici non li sfruttino fino in fondo dato che spesso le volate per lo scudetto, per l’Europa o per la salvezza vengono decise da chi ha più fiato e forza nelle gambe. Gli stessi calciatori si possono inventare qualche infortunio o ingigantire un problemino per restare a casa ed evitare di sprecare energie in partite dalla dubbia importanza. Un concetto che entra in contrasto a gamba tesa con quel sogno di indossare la maglia delle Nazionale che appartiene da sempre a ogni bambino, chi non si è mai immaginato di giocare la finale dei Mondiali nella propria cameretta e segnare il gol decisivo in rovesciata? Non tutti hanno la fortuna di riuscirci, ma il desiderio resta, o almeno dovrebbe. Il sentimento di appartenenza alla Nazionale di calcio è fortemente calato, specie nei giovani, vittime di un sistema calcio che gli ha privati di vivere una delle esperienze più importanti e formative della vita: un’estate con l’Italia al Mondiale. Senza voler esagerare, diciamo che l’assenza dell’Italia alla più grande competizione sportiva al Mondo da più di 10 anni comporta la perdita di un grande rituale collettivo e identitario, anche chi non ama il calcio guarda le partite perché sono un’occasione per stare tutti insieme. Sarà anche questo uno dei motivi che hanno portato i giovani a interessarsi meno del pallone in generale e della Nazionale in particolare? Probabilmente sì. Tornando alla pausa nazionali che non fa contento nessuno è giusto spendere due parole sulla Nations League, la competizione più schernita e ignorata d’Europa. Mancanza di prestigio, format complicato, giocata in mezzo ai campionati: tutti gli ingredienti perfetti per non essere apprezzata. Creata per sostituire le inutili amichevoli di metà stagione, è già giunta l’ora di creare qualcosa per cambiare l’inutile Nations League, perfetta rappresentazione del calcio moderno.

Grande problema del calcio moderno è la diminuzione del sentimento di appartenenza che dovrebbe legare un appassionato a una squadra e al tempo stesso sentirsi parte di un gruppo con tutti coloro che si definiscono come lui “tifosi”. Il mercato eccessivamente dinamico, la gestione del club come azienda e l’aumento dei prezzi sono solo alcuni degli elementi che stanno trasformando il calcio, sono ancor di più da considerare e da indagare la globalizzazione del pallone e l’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Temi grandi, enormi, non basterebbe un saggio a farne una disamina completa, limitiamoci a dire qualche punto legato al nostro discorso. Il tifoso nel passato si identificava in una squadra in quanto rappresentazione del proprio contesto sociale, della propria classe e, spesso, della propria storia. Lo stadio era il luogo che cementava questa relazione sociale tra la squadra e i tifosi e tra i tifosi stessi. La globalizzazione ha trasformato il calcio in un industria miliardaria, club storici sono diventati brand globali, con strategie di marketing, tournèe estive e merchandising distribuito ovunque. Le proprietà locali sono state sostituite da fondi d’investimento, sceicchi e magnati russi che modificano la percezione della squadra come “bene comune” ed espressione della comunità. Basti vedere le vicende del Milton Keynes Dons Fc e dell’AFC Wimbledon: dopo vari problemi finanziari, nel 2002, la dirigenza dell’Wimbledon FC (squadra del quartiere omonimo di Londra) decise di spostare la squadra nella città industriale di Milton Keynes, un anno più tardi la squadra cambiò addirittura nome in Milton Keynes Dons Fc. I tifosi londinesi come risposta fondarono una nuova società basata sull’azionariato popolare e che rappresentasse identitariamente il quartiere di Londra rimasto orfano di una squadra: l’AFC Wimbledon. Recentemente le due squadre si sono affrontate per la prima volta in un’affascinante sfida che ha visto la vittoria del nuovo Wimbledon: la tradizione che sconfigge l’innovazione. L’evoluzione del tifo è profondamente influenzata dai nuovi mezzi di comunicazione. Il tifoso non è più solo colui che va allo stadio instaurando una relazione sociale diretta con al squadra, ma anche colui che sfrutta unicamente le nuove potenzialità comunicative che ti permettono di essere tifoso del Manchester City senza essere mai stato a Manchester. È dunque tutto da buttare? No, nonostante tutto non si può dire che l’emozione, l’identità o il senso di appartenenza stesso sia scomparso del tutto, ma possiamo e dobbiamo indagare questo grande cambiamento.

Esiste anche una globalizzazione dentro al campo da gioco? Si, e si vede sempre di più. Un tempo ogni nazione aveva una propria identità calcistica figlia della cultura locale, di scuole di pensiero e tradizioni calcistiche. L’Italia sinonimo di difesa solida e “catenaccio”, la Spagna dopo anni di pragmatismo è diventata regina del tiki-taka, la Germania con fisicità e organizzazione militare, l’Olanda e il suo calcio totale, un discorso applicabile anche ad alcuni club con un proprio “DNA”. Gli allenatori sanno che devono rispettare queste indicazioni, queste regole non scritte che contribuiscono al mantenimento della relazione sociale tra il tifoso e il club. Quelle che, secondo molti opinionisti, Thiago Motta avrebbe recentemente rotto, colpevole di non aver capito il contesto nel quale si trovava e i comportamenti appropriati a tale contesto. Tornando dentro al campo, ci sono vari fattori che hanno portato una progressiva omologazione degli stili di gioco, in particolare tre: uno scambio continuo di idee e allenatori, l’influenza del tatticismo europeo sul resto del mondo e il predominio dell’intensità fisica. Questo ha arricchito o impoverito il gioco? Da un lato sicuramente ha alzato il livello, dall’altro si è andato perdendo il fascino delle differenze culturali, dei fattori caratterizzanti e di rappresentanza di una squadra e della sua comunità.

I media, come definiti dal sociologo Daniel Lerner, sono dei “moltiplicatori di mobilità”, hanno il potere di ampliare i nostri orizzonti cognitivi, incentivano una maggiore apertura e, per il nostro discorso, ci permettono di interessarci e seguire diversi sport che durante le noiose pause nazionali trovano linfa vitale nel dibattito pubblico. Solitamente è Sinner a riempire le prime pagine in questi momenti ma l’insolita squalifica che sta scontando glielo ha impedito, la sua assenza si sente molto anche tra i colleghi che forse sentono un po’ di pressione in più, vedasi la sconfitta di Alcaraz contro Goffin (l’altoatesino non perderebbe mai queste partite). Tennis a parte, sarebbe ora di dare il giusto spazio mediatico anche ad altri sport e ad altri atleti italiani eccezionali. L’elenco sarebbe infinito, per semplicità e salienza mediatica citiamo tre grandi sportivi che hanno illuminato queste giornate: Mattia Furlani, primo italiano a vincere un titolo mondiale (a 20 anni) nel salto in lungo, una delle discipline più universali nel mondo. Federica Brignone, vincitrice di due Coppe del Mondo generali di sci e di cinque di specialità. Filippo Ganna, secondo classificato nella Milano-Sanremo più bella degli ultimi anni, capace di lottare contro due alieni come Tadej Pogacar e Mathieu van der Poel. Tre atleti azzurri, tre fortissimi atleti azzurri che devono farci sentire orgogliosi. Lo sport italiano sta cambiando. Mentre si perde il sentimento di appartenenza per la Nazionale di calcio e verso il calcio in generale, si “scoprono” nuovi atleti, nuovi campioni delle loro specialità da seguire, supportare e con cui identificarsi, magari sfruttando le carenze che mostra il calcio.

Un discorso molto vasto. Più facile da fare durante la sosta per le nazionali che, con la sua passività assoluta, ci permette di fare riflessioni più ampie senza limiti di tempo e contenuto. Sembra quasi che nel dibattito pubblico, esagerando, il calcio non sia uno sport come gli altri: il calcio è il calcio, lo sport è tutto il resto che c’è. Occorrerebbe smontare questa credenza, per il bene non solo dello sport in generale ma anche del calcio stesso che farebbe bene a prendere ispirazione da altre federazioni per migliorarsi.

La sosta per le nazionali è però finita e, dunque, anche il tempo per pensare ad altro. Si torna al campionato, alla volata scudetto, ai quarti di Champions League, alla lotta salvezza e così via. Chissà se dovremmo aspettare la prossima sosta per rifare questi discorsi o se qualcosa si sta già muovendo.

Foto di Mohamed Hassan da Pixabay, download gratuito. Si ringrazia l’autore

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