Gli episodi che intrecciano le azioni di protesta per l’ambiente e l’arte non sono nuovissimi ma è utile inserire questa escalation di clamore in una prospettiva storicamente orientata.

Rimanendo in anni recenti le prime manifestazioni ambientaliste strutturate e rivolte al pubblico dei musei furono quelle dei gruppi BP or Not BP, Art Not Oil e Platform che, tra il 2014 e il 2016, puntarono l’attenzione contro le sponsorizzazioni di British Petroleum a favore di alcune delle istituzioni culturali più importanti della Gran Bretagna (come il British Museum, la National Portrait Gallery…).

In quegli anni ancora non era stata coniata la fortunata ed eloquente espressione di “filantropia tossica”, che avrebbe poi trovato una significativa diffusione grazie alle proteste di NanGoldin e del suo collettivo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now), che si rese protagonista di diverse performance contro la famiglia Sackler, proprietaria della casa farmaceutica responsabile della produzione del farmaco oppiaceo Oxycontin e tra i donatori più generosi di diversi musei, come il Metropolitan di New York e il Louvre di Parigi.

E ancora a Venezia, la Laguna e il suo red carpet ritornano come testimoni di un ecosistema tanto fragile quanto “di consumo”: nel 2019, centinaia di attiviste e attivisti provenienti dai movimenti ambientalisti di tutta Europa invasero la passeggiata d’onore della Mostra del Cinema, in concomitanza con il primo Venice Climate Camp internazionale, organizzato dai membri di Fridays For Future, il movimento di protesta contro il cambiamento climatico che trovò in Greta Thunberg la sua icona.
Un mese dopo, gli attivisti di Extinction Rebellion misero in scena una performance alla National Portrait Gallery di Londra, nell’ala dove erano allestite alcune opere acquisite in collezione grazie ai fondi della BP Oil: tre attivisti seminudi rimasero sdraiati per diversi minuti sul pavimento della sala cosparsi di una sostanza oleosa, prima di rialzarsi, asciugarsi e pulire tutto.
Per contestualizzare: pochi giorni prima era accaduto il disastro della Deepwater Horizon, quando, a seguito a un incidente durante il perforamento di un pozzo sottomarino nel Golfo del Messico, morirono sul colpo 11 operai e fu causato uno sversamento nelle acque di una cifra impressionante e difficilmente precisabile di idrocarburi, tra i 5 e 10 milioni di litri.

Insomma, tra il 2018 e il 2019 la posta in gioco si stava alzando. L’aveva notato anche Banksy che, sempre attento ai fenomeni sociali e culturali del momento, nell’aprile 2019 realizzò uno dei suoi stencil, a Londra, raffigurante un bambino accovacciato accanto a una piantina verde, con in mano un cartello di Extinction Rebellion. A commento, una scritta che oggi suona profetica: «From this moment despair ends and tactics begin»: «Da questo momento la disperazione finisce e iniziano le tattiche». Ed è stato proprio così!

Emergendo dai margini dei blog ai feed più popolati di Twitter, proprio in coincidenza della pandemia che tanto ha fatto riflettere in termini di impatto ambientale, i movimenti hanno infatti trovato una sorta di linea di azione comune e transnazionale di disobbedienza, con molti gruppi locali riuniti sotto le reti “Just stop oil” e “Last Generation”.

In Italia, nei giorni scorsi, gli attivisti si sono incollati ai vetri protettivi della Primavera di Botticelli agli Uffizi (FI) e alle balaustre della Cappella degli Scrovegni (PD), dando seguito a quanto era accaduto poco prima in Inghilterra, con le opere di Vincent van Gogh, William Turner e John Constable, e in Germania contro i Covoni di Claude Monet; l’ultima : zuppa di piselli ad imbrattare il “Seminatore” di Van Gogh.
«Al giorno d’oggi è possibile vedere una primavera bella come questa? Incendi, crisi alimentare e siccità lo rendono sempre più difficile», si leggeva sulla pagina Instagram del collettivo italiano;
oppure «Giotto diede istruzioni al genere umano su come salvarsi» o, ancora «Agiamo per amore della vita, dunque per amore dell’arte!».

L’evidente enormità di lanciare salse e purè sui vetri che proteggono i capolavori giustamente intoccabili della storia dell’arte è un’azione che, come prevedibile, ha riscosso un’ampia risonanza mediatica, tanto sui giornali e sulle riviste quanto sulle bacheche dei profili personali.
Ora, con tutta la comprensione alla salvaguardia del nostro pianeta, non possono essere giustificati atti vandalici del genere.
Il risultato è una mole critica di commenti, molti dei quali infiammati da una violenta radicalità, con tanto di auguri di lapidazione o carcere a vita per i giovanissimi attivisti.

Serviranno i video virali a ridurre le emissioni di Co2? Attaccare l’arte è un buon mezzo per difendere l’ambiente? Forse la questione non va inquadrata in questi termini di contrapposizione, piuttosto nell’intima rispondenza tra arte e vita. D’altra parte, l’arte è un mezzo per esprimersi oppure un fine a cui tendere?

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